La teoria di Gaia

Questo capitolo vuole essere una semplice introduzione alla teoria di Gaia. Per approfondimenti, si faccia riferimento alla bibliografia, dalla quale sono tratti tutti i testi riportati nel capitolo.

Introduzione

Nei primi anni 60, la NASA cominciava a pianificare l’esplorazione dello spazio e la ricerca della vita al di fuori della terra, attività che ebbe il suo culmine con l’atterraggio del Viking su Marte. Al progetto, insieme con molti altri ingegneri, scienziati e filosofi, partecipò anche James Lovelock (medico, biofisico, chimico e inventore), con l’incarico di progettare strumenti per la rilevazione della vita su Marte.
Ben presto però, Lovelock si convinse che gli strumenti che stavano mettendo a punto i sui colleghi biologi si basavano su infondate analogie con il loro lavoro sulla terra e quindi non avrebbero rilevato la vita neanche se Marte il pianeta ne fosse stato pieno: l’ideazione di una “trappola per pulci” ad esempio, si basava sull’assunto che il pianeta fosse principalmente desertico e quindi abitato da… cammelli, i quali notoriamente attirano le pulci!
In quel periodo, Lovelock pubblica due articoli in cui afferma che il metodo migliore per scoprire la presenza della vita su un altro pianeta consiste semplicemente nell’eseguirne una completa analisi dell’atmosfera, cosa possibile comodamente dalla terra ma impossibile per il Viking, che non era attrezzato per queste rilevazioni.
L'atmosfera di un pianeta senza vita infatti, è vicina all’equilibrio chimico: se se ne prende un campione e lo si riscalda, si ottiene una miscela di composti non diversa da quella di partenza. Cosa dire invece di un pianeta che ospita la vita?
L’atmosfera terrestre è lontana dall’equilibrio chimico, è composta da gas che dovrebbero reagire prontamente, facilmente e velocemente tra loro per dare origine a composti stabili. 
Sembra però che questi gas rimangano separati, in apparente inosservanza delle leggi che regolano l’equilibrio chimico standard. Lovelock trovò la chimica dell’atmosfera terrestre così persistentemente bizzarra da poterla attribuire soltanto alle proprietà collettive degli organismi.
Questi lavori costituiscono l’embrione della Teoria di Gaia, la quale descrive la terra come un unico sistema autoregolante capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche (la temperatura media, le percentuali dei gas, l’acidità e così via), in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento degli organismi viventi.
Esiste un termine, in biologia, per descrivere questo sistema di regolazione che è una delle caratteristiche peculiari degli organismi viventi: omeostasi.
L'omeostasi è la capacità di un organismo di mantenere costanti le condizioni chimico-fisiche interne anche al variare delle condizioni ambientali esterne attraverso meccanismi autoregolanti a cui partecipano tutti gli apparati del corpo.
Dato che l’omeostasi è una delle caratteristiche peculiari degli organismi viventi, allora in un certo senso, la Teoria di Gaia implica che anche la terra possa essere vista come un organismo, anzi, un superorganismo vivo, i cui sottosistemi (quelli che negli organismi chiameremmo organi), concorrono tutti alla stabilità e al benessere del sistema di cui fanno parte.
Non si deve pensare ad una visione animista, non c’è intenzionalità ne consapevolezza nei sistemi di regolazione delle caratteristiche chimico-fisiche della terra, la regolazione è una proprietà emergente di sistemi con determinati tipi di retroazione, esattamente come il mantenimento della temperatura dell’acqua di uno scaldabagno elettrico è il risultato non intenzionale della retroazione compiuta dal termostato interno.
Esistono molte definizioni possibili del concetto di vita e tutte dipendono dal tipo di formazione scientifica o filosofica di chi si accinge a darla.
Una definizione di vita secondo la quale si potrebbe definire viva la terra può essere la seguente: 
“La vita è la proprietà di un sistema circoscritto, aperto ad un flusso di energia e materia, in grado di mantenere costanti le proprie condizioni interne malgrado il mutare delle condizioni esterne”
Un esempio concreto di omeostasi della terra è dato dal fatto che la temperatura media del pianeta è rimasta pressoché costante nonostante il sole abbia, nel corso del tempo, aumentato del 25% il suo calore.
La comunità scientifica ha compiuto forti resistenze all’idea della Teoria di Gaia. Secondo alcuni importanti biologi infatti (Dawkins e Doolittle), l’omeostasi sarebbe possibile solamente tramite simbiosi dei vari organismi terrestri… non solo, essi dovrebbero agire secondo una pianificazione precisa e questo ovviamente non è possibile.
Per rispondere a queste critiche, Lovelock ha elaborato il semplice modello di un pianeta mitico, il pianeta delle margherite (Daisy world), abitato solamente da due specie di margherite: bianche e nere, le cui caratteristiche fisiche modificano l’albedo (la luce riflessa nello spazio), del pianeta. 
Sulla base della semplice selezione naturale, Lovelock ha dimostrato che questo sistema riesce a mantenere costante la temperatura media del pianeta (omeostasi), a fronte dell’aumento di energia irradiata dalla stella attorno alla quale orbita.
Questo semplice modello ha dimostrato che è possibile applicare la teoria dei sistemi anche alla terra senza per questo implicare nessun tipo di pianificazione da parte degli organismi viventi.
Molta strada è stata fatta dopo l’elaborazione di questo semplice modello teorico, molto è stato capito sui veri cicli di retroazione che regolano le caratteristiche della terra e molto ancora deve essere capito. 
E’ fondamentale però comprendere che con la Teoria di Gaia vengono meno le concezioni del mondo che si sono sviluppate fino ad ora e che considerano la terra e la natura sostanzialmente come fonte di risorse che l'uomo può sfruttare a proprio piacimento.
Vista con la lente della Teoria di Gaia, ciò che comunemente chiamiamo natura, non è altro che l’insieme degli ecosistemi che di fatto rappresentano gli organi della terra i quali concorrono tutti alla regolazione delle caratteristiche chimico-fisiche del pianeta e sono tutti ugualmente importanti e da preservare se si vuole che la terra continui a mantenere un ambiente confortevole per la vita di noi esseri umani.

La teoria del controllo e il pianeta delle margerite

La Teoria di Gaia poggia le sue basi sulle idee della cibernetica, termine introdotto dal matematico Norbert Wiener nel 1947 e che deriva dal greco kybernetes: timoniere.
L'origine della cibernetica risale al progetto di un meccanismo di puntamento per artiglieria antiaerea condotto nella seconda guerra mondiale. Il problema principale derivava dalla necessità di lanciare il proiettile non direttamente sul bersaglio, dal momento che questo era dotato di elevata velocità, ma in un punto antecedente la traiettoria, in modo tale che l'aereo e il proiettile giungessero infine ad incontrarsi. Ma nel frattempo l'aereo poteva cambiare direzione in maniera casuale anche se non del tutto arbitraria. Era quindi necessario un strumento di previsione della posizione dell'aereo che agisse in maniera rapida e che dirigesse il puntamento del pezzo antiaereo. Inoltre il puntamento del pezzo doveva continuamente essere corretto mediante un meccanismo di retroazione (dall'inglese feedback), che riceveva informazioni sul reale comportamento dell'aereo nemico.
Il concetto di retroazione è centrale nella Teoria di Gaia: solo grazie alla retroazione si possono avere sistemi di controllo automatico come meccanismi di puntamento per artiglieria antiaerea o, più banalmente, ferri da stiro e scaldabagni elettrici. In un ferro da stiro, un sensore chiude un interruttore elettrico o lo apre a seconda che la temperatura attuale sia minore o maggiore della temperatura desiderata, chiudendo un anello (retroazione negativa), tra causa ed effetto.
La Teoria di Gaia prevede che la vita e quella che si potrebbe normalmente definire la parte inanimata del pianeta, siano strettamente accoppiati a formare un unico sistema nel quale molti anelli di retroazione stabilizzano le condizioni chimico-fisiche della terra in modo tale da renderlo un luogo ospitale per la vita stessa.
Per dimostrare che questo tipo di controllo da parte della vita è almeno teoricamente possibile e non implica nessuna pianificazione ne intenzionalità nei comportamenti degli organismi terrestri, Lovelock ideò un modello teorico semplificato di Gaia in cui semplici anelli di retroazione permettono l’effettiva autoregolazione del sistema: il pianeta delle margherite (Daisy world). L’evoluzione di questo modello teorico può essere simulata al computer.

Ecco le caratteristiche del modello teorico di questo pianeta mitico: 

  1. Il pianeta orbita attorno ad una stella simile al nostro sole
  2. Il suolo nudo è di un colore di media intensità, né scuro né chiaro
  3. Sul suolo umido e fertile dormono semi di due specie di margherite: nere e bianche
  4. Le margherite possono crescere fra i 5° e i 40° e il tasso massimo di crescita si ha intorno ai 22 gradi.
  5. Come il nostro sole, la stella attorno alla quale il pianeta orbita si scalda man mano che evolve


Considerando il fatto che la temperatura superficiale di un pianeta dipende dal suo effetto albedo, ovvero dalla quantità di luce riflessa nello spazio, è possibile che l’ecosistema di questo pianeta porti all’autoregolazione del clima?
Quella che segue è una descrizione della simulazione al computer di questo sistema.
Quando il calore emanato dalla stella è aumentato in modo sufficiente da innalzare fino a 5° la temperatura della regione equatoriale del pianeta, alcuni semi cominciano a germogliare e a crescere e le margherite scure sono quelle più avvantaggiate perché assorbono più luce e sono quindi più calde della terra brulla (si pensi a quando si indossa un abito nero sotto il sole estivo).
Dopo qualche tempo le margherite nere fioriscono in abbondanza e le margherite chiare scarseggiano.
La vasta estensione di terreno ricoperta dalle margherite scure altera l’albedo del pianeta: il pianeta si scalda.
Ben presto, grazie a questa forte retroazione positiva, la crescita delle margherite scure causa l’aumentare della temperatura fino ad oltrepassare quella ideale per la crescita, almeno nella regione equatoriale, dove a questo punto risultano avvantaggiate le margherite bianche che riflettono la luce e sono quindi più fresche.
Dal momento che le margherite chiare sono le più adatte ad un clima caldo, cominciano a diffondersi e a diventare più numerose di quelle scure, almeno finché il loro effetto di raffreddamento non abbassa la temperatura dell’ambiente.
Alla fine, si raggiunge uno stato stazionario, cioè un equilibrio dinamico di margherite scure e chiare, con un albedo media vicina a quella richiesta per mantenere la temperatura superficiale ad un valore ottimale per la crescita delle margherite.
Man mano che aumenta il calore emanato dalla stella, le margherite scure diminuiscono e si diffonde la popolazione delle margherite chiare mentre la temperatura rimane vicina a quella preferita della dalle margherite.
Alla fine dell’evoluzione della stella, il calore emesso è talmente elevato che nemmeno un pianeta interamente ricoperto di margherite bianche è sufficiente per mantenere un clima tollerabile e il sistema smette di funzionare.
Le margherite cominciano a non crescere più nella regione equatoriale, continuando a prosperare solo ai poli e ben presto, in modo catastrofico, il pianeta muore.
Per tutto il periodo in cui la vita ha prosperato, però, il pianeta ha conservato (regolato!) una temperatura quasi costante attorno a quella preferita dalla vita a fronte di una continua crescita di calore emesso dalla propria stella, la vita si è cioè comportata come un perfetto sistema di controllo del clima grazie agli anelli di retroazione esistenti, senza bisogno di previsione ne pianificazione ma solamente seguendo le leggi della selezione naturale.
Il sistema è stato messo alla prova in molti modi e si è sempre dimostrato in grado di superare tutte le prove a cui è stato sottoposto.
Un buon sistema di regolazione deve infatti saper fronteggiare e correggere eventuali disastri.
A questo scopo, nel modello sono state introdotti dei virus che periodicamente e in modo catastrofico provocano la morte del 30% di tutte le margherite esistenti. 
Il modello si è dimostrato in grado di superare questa calamità e dopo un periodo di perdita di controllo del clima, l’andamento si è sempre riallineato a quello “originale”.
Per tentare di sabotarlo, il modello è anche stato arricchito di altre specie: di margherite di colore neutro con un tasso di crescita superiore alle altre del 5% (perché non devono fare la fatica di sintetizzare il pigmento), con l’introduzione di animali erbivori (conigli) e predatori (volpi).
Le margherite di colore neutro, in un certo senso, barano, perché con il loro colore neutro non contribuiscono attivamente alla regolazione del clima e in più sono avvantaggiate nella crescita.
Tutte le simulazione hanno però dimostrato che le margherite grigie possono prosperare solamente quando il calore emesso dalla stella è ottimale, ovvero, quando non c’è nessun bisogno di regolazione del clima. Nei periodi che precedono e che seguono questo momento felice, le specie che prosperano sono quelle che attivamente riescono a regolare il clima rendendolo più adatto alle proprie esigenze.
Sorprendentemente, ne le catastrofi ne le nuove specie introdotte hanno avuto seri effetti sulla capacità delle margherite di regolare il clima.
E’ stato dimostrato quindi che la regolazione delle caratteristiche chimico-fisiche di un pianeta da parte della vita è possibile, almeno in linea teorica.
Forti di questa dimostrazione, è possibile avventurarsi nella ricerca degli anelli di retroazione che realmente possono agire nella terra, anelli che risiedono in quelli che si possono chiamare i cicli fisiologici (o meglio, geofisiologici), di elementi quali il carbonio, lo zolfo, l’azoto, l’ossigeno e così via. 
Cicli che, paragonando la terra ad un organismo, costituiscono il metabolismo di Gaia.

Un respiro globale

Prima di parlare di una cosa complessa come (addirittura), il metabolismo della terra, può essere utile familiarizzare con qualcosa di più intuitivamente vicino alla nostra percezione.
Tutti sanno che il livello di anidride carbonica nell’atmosfera continua ad aumentare da quando l’uomo ha cominciato a bruciare combustibili fossili, forse non tutti sanno però che questa tendenza alla crescita non è l’unico fenomeno interessante legato alla concentrazione di questo composto chimico.
Dal 1958, la concentrazione di anidride carbonica è registrata quotidianamente da un laboratorio posto in cima al vulcano di Mauna Loa, nelle Hawaii. Dagli anni ottanta, poi, si è sviluppata una fitta rete mondiale di centri di misurazione che fornisce dati molto dettagliati. I dati delle misurazioni di anidride carbonica, possono essere disegnati su un grafico, il quale mostra chiaramente oscillazioni annuali sovrapposte all’andamento crescente della curva, oscillazioni che erano del tutto inaspettate e le cui cause sono state molto studiate in questi decenni. Il grafico oscillatorio della concentrazione di CO2, presenta il minimo locale verso ottobre, mentre il massimo viene toccato verso maggio, con un’escursione di un certo rilievo.
Essendo le Hawaii situate in messo all’oceano, in balia dei venti che rimescolano continuamente l’aria, si rivelano un punto privilegiato per la rappresentazione dell’aria media dell’emisfero settentrionale e indicano chiaramente che questa oscillazione è un fenomeno globale e non locale.
Nella lista degli indiziati della causa dell’oscillazione, c’erano chiaramente le emissioni dovute ai combustibili fossili, le quali potrebbero subire variazioni stagionali. In realtà è stato calcolato che le emissioni dovute ad attività umane subiscono variazioni stagionali sorprendentemente piccole e sono state quindi scartate dall’elenco dei sospettati.
E’ stata fatta l’ipotesi che queste oscillazioni siano legate in qualche modo all’oceano. Questa ipotesi può essere verificata o confutata facilmente compiendo le stesse misurazione alla stessa latitudine di Mauna Loa ma nell’emisfero meridionale.
In confronto con l’emisfero settentrionale, infatti, nell’emisfero meridionale si trova pochissima terra emersa e si può dire che ci sia quasi esclusivamente oceano. Queste misurazione hanno fornito dati sorprendenti: l’oscillazione è quasi inesistente, quindi gli oceani non centrano.
Non resta altro quindi che l’alterno prevalere, su scala globale, dei fenomeni della fotosintesi e della respirazione. Nella tarda primavera e in estate, in tutti gli ecosistemi della fascia temperata, l’assorbimento di CO2 da parte delle piante rappresenta la parte dominante del bilancio di quello che possiamo definire come un respiro globale. 
E’ vero che le temperature estive spingono i batteri ad un’attività respiratoria molto intensa, ma l’attività fotosintetica è di gran lunga superiore e il bilancio totale è negativo (la concentrazione diminuisce).
In autunno e inverno, la fotosintesi precipita quasi a zero, mentre l’attività respiratoria, per quanto ridotta dalle basse temperature, ha la prevalenza, riportando il bilancio positivo.
La descrizione di questo respiro globale, ci introduce direttamente ai principi che sono alla base del funzionamento della terra: la descrizione dei flussi dei principali elementi (in questo caso il carbonio), attraverso i sistemi della terra.
La disciplina biologica che si occupa di studiare il funzionamento degli organismi viventi è la fisiologia, una scienza integrata che utilizza principi chimico-fisici per spiegare il funzionamento dei viventi siano essi vegetali o animali, mono o pluricellulari.
In analogia, James Lovelock ha coniato il termine geofisiologia, termine ora ampiamente utilizzato da chi si occupa di teoria di Gaia e di scienze della terra, per indicare la disciplina che si occupa di studiare il funzionamento della terra nel suo complesso, il cui approccio metodologico è paragonabile a quello della fisiologia classica.
Il ciclo di Mauna Loa ci mostra, in modo semplice e intuitivo, la geofisiologia in azione.

I grandi ecosistemi: gli organi di Gaia

Normalmente si pensa ad un ecosistema come ad un sistema stabile che si autoperpetua, formato da una comunità di organismi viventi e dal loro ambiente non vivente. Secondo questa visione, gli organismi non alterano il proprio ambiente, ma semplicemente vi si adattano.
Questa visione è splendidamente confermata dalla frase che solitamente accompagna ogni discorso comune sull’ecologia e sui danni che l’uomo sta facendo alla terra: “quella umana è l’unica specie che modifica il proprio ambiente”.
La visione di un ecosistema secondo la teoria di Gaia, invece, considera i due componenti del sistema, quello vivo e quello non vivo, come due forze interattive strettamente collegate, ognuna delle quali modella, influenza e modifica l’altra. La teoria di Gaia dimostra infatti come sia normale che gli organismi viventi, oltre ad essere influenzati dal loro ambiente, lo modifichino attivamente, esattamente come nel pianeta delle margherite.
Gli ecosistemi naturali sono gli organi di Gaia, ognuno di questi possiede una parziale indipendenza, ma non è in grado di esistere se non come parte del sistema Terra. In ogni ecosistema inoltre, il lavoro chimico svolto dalle comunità batteriche è di fondamentale importanza.
E’ possibile definire alcuni grandi ecosistemi secondo la loro attività chimica e fisica all’interno del sistema terra. Ad esempio, l’ecosistema delle alghe oceaniche degli oceani glaciali e temperati assume anidride carbonica dall’aria e immette nell’atmosfera composti dello zolfo, dell’azoto, iodio e idrocarburi. E’ dimostrato che il dimetilsolfuro, uno dei composti dello zolfo rilasciato nell’atmosfera dalla vita oceanica, funge da nucleo di condensazione delle nubi e quindi gioca un ruolo importante nella regolazione globale del clima, influenzando indirettamente l'albedo terrestre. Un fatto che non può non riportare alla mente il pianeta delle margherite. 
Lo stesso ecosistema è responsabile, con la caduta di minuscoli involucri di alghe morte, dei depositi di carbonato di calcio dei fondali. Il carbonio depositato in questa forma stabile, è sottratto all’anidride carbonica presente nell’atmosfera e quindi questo processo fa parte di un ciclo di regolazione di questo importante gas serra.
In sostanza, un altro modo in cui questo importante ecosistema influenza il clima globale. La retroazione si chiude con il fatto che le alghe crescono più velocemente con temperature più alte, quindi con alte temperature si ha un’accresciuta attività di raffreddamento del clima da parte di questo sistema, mentre con temperature basse, dato il ridotto tasso di crescita, si ha un rallentamento dell’attività di raffreddamento del clima.
Di fatto, in questo ciclo si riconosce un termostato nascosto. Analogamente, sulla terraferma, i grandi ecosistemi batterici svolgono funzioni fondamentali per la chimica gaiana, dalla produzione di gas atmosferici alla fortissima accelerazione dell’erosione delle rocce, erosione che attraverso le reazioni chimiche che la causano, sottrae anch’essa anidride carbonica dall’atmosfera contribuendo alla regolazione del clima.
Le foreste tropicali svolgono apparentemente soprattutto una funzione climatica grazie alla loro capacità di evapotraspirazione di enormi masse di vapore acqueo, mantenendo così nuvoloso e piovoso il clima della regione.
Tutti gli ecosistemi poggiano comunque le loro basi sulle comunità batteriche. Senza i batteri, infatti, l’intero sistema non avrebbe modo di esistere. I batteri si possono dividere in tre grandi gruppi: fotosintetici (produttori di ossigeno, come le piante), consumatori (consumatori di ossigeno, quindi respiratori), e fermentatori (o metanogeni). 
I batteri fotosintetici consumano anidride carbonica e acqua e producono ossigeno e materia organica.
I batteri consumatori traggono energia dalla materia organica e dall’ossigeno e liberano anidride carbonica, mentre i fermentatori trasformano materia organica in metano e anidride carbonica.
Questi tre gruppi di batteri sono la parte più importante del sistema terra e per gran parte della storia di Gaia (miliardi di anni), sono stati gli unici organismi viventi regolatori delle caratteristiche chimico-fisiche della terra.

La teoria del controllo e la vita sulla terra

Gli esempi descritti mostrano in forma semplificata alcuni dei modi in cui la vita, agendo direttamente sui cicli globali di ricircolo degli elementi, agisce indirettamente anche sul clima, regolandolo. 
Nessuno di questi esempi però colpisce l’immaginazione quanto il pianeta delle margherite, nel quale il controllo si deve al gioco continuo dei diversi tassi di crescita di due specie diverse. 
Quando entrano in gioco più specie, infatti, si comprende subito quanto la complessità dei sistemi (cioè la biodiversità), possa introdurre importanti cicli di stabilizzazione di quell’ambiente in cui noi uomini viviamo così confortevolmente.
Una delle caratteristiche chimiche che si ritrovano sempre mediamente costanti in Gaia è il rapporto tra azoto e fosforo, due elementi fondamentali per la vita.
Negli oceani, il rapporto tra questi due elementi è sempre pari a 7 ed è pari a 7 anche nel plancton marino.
Sulla terraferma le cose si complicano un po’, tuttavia questa costante ricorre spesso (ad esempio, il rapporto tra le quantità raccomandate di questi elementi nella dieta umana è pari a 7) e si ritrova a livello di interi ecosistemi.
Sembra insomma che questo rapporto si possa considerare in qualche modo una caratteristica della vita.
E’ normale quindi chiedersi se la vita è stata plasmata dalle caratteristiche oceaniche, ovvero se la vita si è semplicemente adattata all’ambiente in cui si è evoluta, oppure se, in questo caso specifico, esiste una qualche relazione più stretta fra vita e ambiente tale per cui i rapporti di causa ed effetto si chiudono in un ciclo di retroazione omeostatico.
La parte da protagonista, in questa scena, è tenuta dai batteri fissatori dell’azoto.
Questi importantissimi batteri convertono l’azoto gassoso presente nell’atmosfera in una forma adatta alla vita. Senza la fissazione dell’azoto, sulla terraferma scarseggerebbe il nutrimento per i vegetali, infatti l’azoto è un componente importantissimo dei fertilizzanti usati in agricoltura.
I batteri fissatori dell’azoto riforniscono quindi l’oceano di questo elemento recuperandolo direttamente dall’atmosfera. Questa però è un’attività che ha un costo metabolico molto elevato, si può dire in un certo senso che questi batteri compiono un grosso sforzo fisico continuo.
Questo, si traduce nel fatto che i batteri azotofissatori possono proliferare solamente in condizioni di carenza di nutrienti disciolti, ovvero quando scarseggia azoto e quindi gli altri tipi di batteri si trovano in situazioni di carestia.
In particolare, si può dire che si ha carenza di azoto quando il suo rapporto con il fosforo è minore di 7.
In questo caso, i batteri fissatori dell’azoto lasceranno una progenie più numerosa di tutti gli altri in quanto più adatti ad un ambiente povero.
Avviene però che proliferando, elevano la quantità di azoto disponibile nell’oceano fino a quando questo rapporto non raggiunge o addirittura supera il valore di 7. A questo punto, tutti i batteri che non si devono sobbarcare la fatica della fissazione dell’azoto risultano più avvantaggiati degli azotofissatori e cominciano a proliferare al posto dei primi che, quindi, contribuiranno con una minore fornitura di azoto per l’oceano. 
Se l’azoto dovesse ricominciare a scarseggiare, ovvero se il rapporto con il fosforo dovesse ritornare ad essere inferiore a 7, i batteri azotofissatori ritornerebbero ad essere avvantaggiati e ricomincerebbero a pompare questo elemento da quell’enorme serbatoio che ne è l’atmosfera.
Per completare il quadro bisognerebbe complicare la scena considerando i tradizionali flussi geologici dell’azoto e l’attività dei batteri cosiddetti denitrificanti che compiono l’attività opposta degli azotofissatori, ma tutti questi altri flussi non incidono in modo sostanziale sull’omeostasi descritta.

Competizione o... collaborazione?

Equivoci su Darwin

Come è stato accennato, le prime critiche alla teoria di Gaia erano basate sulla considerazione che l’omeostasi sarebbe possibile solamente tramite simbiosi dei vari organismi terrestri, i quali, non solo avrebbero dovuto collaborare attivamente, ma addirittura pianificare i loro interventi.
In realtà si è visto che la pianificazione non è assolutamente necessaria per l’omeostasi: essa è una proprietà emergente del sistema e le critiche sono state confutate sul campo.
Tuttavia, queste critiche fatte da eminenti biologi e la credenza popolare che l’evoluzione sia una lotta all’ultimo sangue in cui solo i più forti sopravvivono, suggeriscono la necessità di approfondire il tema centrale della simbiosi e della collaborazione, che si dimostrano invece essere le spinte evolutive più forti ed efficaci.
La “sopravvivenza del più idoneo”, un motto coniato dal filosofo Herbert Spencer (1820-1903), venne utilizzato dagli imprenditori della fine dell’Ottocento per giustificare miserabili pratiche come l’impiego di manodopera infantile, il commercio degli schiavi e il ricorso a condizioni di lavoro disumane. Distorto al punto da arrivare a significare che solo il più spietato vince nella “lotta per l’esistenza”, il concetto implicava che lo sfruttamento, essendo cosa naturale, era moralmente accettabile.
Darwin, in realtà, si era servito della frase di Spencer non per riferirsi alle abitudini predatorie o alla frusta del padrone, ma al fatto di produrre una discendenza più numerosa!
Idoneo, per l’evoluzione, significa fecondo; il punto vero quindi non è infliggere la morte quanto propagare la vita. 
La competizione, in cui vince il più forte, ha avuto molti più commenti da parte della stampa di quanti ne abbia avuti la cooperazione, ma certi organismi apparentemente deboli sono sopravvissuti sulla lunga durata in quanto membri di coalizioni, mentre altri, apparentemente fo
rti, non essendo mai ricorsi all’espediente della collaborazione, sono stati scaricati sul mucchio di rifiuti dell’estinzione evolutiva.

Cooperazione e comunicazione nel microcosmo

Per comprendere quelle spinte evolutive così mirabilmente guidate dalla collaborazione di cui si sta parlando, bisogna entrare nel microcosmo della vita unicellulare, microcosmo che, come si è già detto, costituisce l’infrastruttura su cui si basa tutta la vita macroscopica.
I batteri sono stati l’unica forma di vita esistente sulla terra nei primi due miliardi di anni, nei quali continuarono a trasformare la superficie terrestre e l’atmosfera, inventando tutti i sistemi chimici miniaturizzati essenziali per la vita: un’impresa che finora l’umanità non è ancora riuscita a replicare.
I batteri, trasferiscono abitualmente e rapidamente differenti frammenti di materiale genetico ad altri individui anche di ceppi molto diversi, e, in qualsiasi momento, ogni battere può utilizzare questi geni accessori i quali, alcune volte, vengono ricombinati con i geni originali della cellula.
La velocità di ricombinazione è di molto superiore a quella della mutazione e per questo i batteri riescono ad adattarsi a cambiamenti ambientali globali in tempi misurati in pochi anni quando esseri viventi non batterici impiegherebbero milioni di anni.
Di fatto, tutti i batteri del mondo hanno accesso ad un unico pool genetico e, pertanto, ai meccanismi adattivi dell’intero regno batterico.
Tutte le nostre nuove tecniche di ingegneria genetica, sono già usate da miliardi di anni dai batteri che di fatto, comunicando e cooperando tra loro mediante scambio di materiale genetico su scala globale, formano un “superorganismo” che rende il nostro pianeta fertile e abitabile dalle forme di vita del macrocosmo e in definitiva da noi esseri umani.
Simbiosi ed evoluzione
I batteri e la loro evoluzione sono così ricchi di significato che la divisione fondamentale tra le forme di vita sulla terra non è tra piante ed animali, come si suppone abitualmente, ma tra organismi costituiti da cellule prive di un nucleo ben definito, cioè i batteri (procarioti), e da organismi costituiti da cellule con un nucleo (eucarioti), cioè tutti gli altri esseri viventi, umani compresi.
E’ possibile leggere la storia dell’evoluzione dei batteri nell’arco di miliardi di anni grazie a numerosi ritrovamenti di batteri fossili. 
Questa documentazione fossile ci riserva non poche sorprese. La transizione biologica tra batteri e cellule nucleate è, infatti, talmente drastica quanto lo sarebbe il primo aeroplano dei fratelli Wright seguito a una sola settimana di distanza da un Concorde.
La scienza ha potuto dare una spiegazione definitiva di questa evoluzione così discontinua, la più spettacolare di tutta la biologia, solo con la scoperta e le successive comprensioni del DNA. 
Questa spiegazione si può riassumere in un'unica parola: simbiosi.
Per fare un esempio, le nostre cellule contengono degli organelli (mitocondri), che svolgono la vitale funzione di utilizzo dell’ossigeno: senza questi organelli noi non potremmo vivere.
Questi organelli hanno un loro DNA e si riproducono autonomamente rispetto al resto della cellula ed è ormai chiaro che sono i discendenti degli antichi batteri che nuotavano nei mari primitivi e che hanno inventato la respirazione dell’ossigeno. 
Ad un certo punto, questi batteri, probabilmente mangiati ma non digeriti da altri microrganismi, hanno fissato la loro dimora all’interno di cellule ospiti, provvedendo all’eliminazione delle scorie e al rifornimento di energia derivata dalla combustione di ossigeno.
Questi organismi “fusi insieme” si evolvettero poi in forme più complesse che respiravano ossigeno, fino ad arrivare a formare le moderne cellule che costituiscono i nostri corpi. 
Da questo tipo di alleanza simbiotica fra due organismi non si ottiene semplicemente la “somma delle loro parti”, ma piuttosto qualcosa di simile alla somma di tutte le possibili combinazioni di queste parti, spingendo l’evoluzione verso direzioni altrimenti inesplorabili.
La simbiosi spiega non solo l’evoluzione di organismi respiratori, ma spiega anche l’evoluzione delle cellule fotosintetiche delle piante tramite simbiosi di microrganismi con gli antichi batteri fotosintetici, e l’elenco potrebbe andare avanti.
Questo tipo di evoluzione simbiotica è stata osservata e sperimentata in laboratorio.
Questi processi simbiotici così spinti, naturalmente, non sono gli unici esistenti, noi membri del macrocosmo interagiamo costantemente con il microcosmo e dipendiamo da esso.
Alcune piante, ad esempio, non riescono a vivere senza la presenza di batteri azoto-fissatori nelle radici e noi stessi abbiamo bisogno di rigogliose comunità batteriche (i famosi fermenti lattici), per poter digerire il cibo, tant’è vero che un buon 10% del nostro peso secco è costituito da batteri indispensabili per la nostra sopravvivenza.

Omeostasi e collaborazione

Per concludere, si potrebbe affermare che i critici della teoria di Gaia avevano in un certo senso ragione: l’omeostasi della Terra, che si basa ovviamente sulla vita, sembrerebbe avere bisogno della collaborazione e della simbiosi su cui si basa la vita stessa. 
I meccanismi che rendono possibile l’evoluzione della vita sono necessariamente gli stessi che rendono possibile l’omeostasi del pianeta, si può quindi affermare che il funzionamento del mondo è basato principalmente sulla collaborazione.

Gli esseri umani e Gaia

Come si è visto, la credenza che l’uomo sia l’unico animale che modifica il proprio ambiente è profondamente sbagliata, dato che tutti gli organismi viventi contribuiscono a modificare l’ambiente in cui vivono. 
E allora, se quando modifichiamo la terra, in teoria, facciamo una cosa del tutto naturale, perché dovremmo preoccuparcene? Le nostre azioni sono davvero dannose? Non potrebbe essere che in realtà il pianeta, Gaia, sia in grado di garantire la stabilità nonostante tutto il nostro presunto inquinamento?
Dopotutto Gaia, cioè la vita sulla terra, esiste da miliardi di anni e nella sua storia è riuscita a superare brillantemente crisi anche molto gravi.
La prima grave forma di inquinamento planetario, ad esempio, è stata ad opera dei batteri che hanno inventato la fotosintesi e che hanno cominciato ad emettere nell’atmosfera ossigeno, un gas molto tossico che ha creato una crisi ambientale molto grave e messo in difficoltà gli altri organismi viventi. 
Da questa crisi ambientale, però, si sono evoluti gli organismi respiratori di cui noi facciamo parte. Si può quindi affermare che, dal nostro punto di vista, la crisi planetaria legata alla comparsa dell’ossigeno, sia stata positiva.
Certo, verissimo. Ma andatelo a dire a tutte quelle specie che rimasero uccise per intossicazione da ossigeno.
Il punto è proprio questo: l’umanità ha proliferato in un certo tipo di configurazione stabile di Gaia, non è detto però che possa trovarsi così perfettamente a suo agio in altre configurazioni, altrettanto stabili, ma diverse!
La teoria di Gaia mostra come l’attività degli esseri umani stia portando gli attuali sistemi di regolazione delle caratteristiche chimico-fisiche della terra oltre i limiti della configurazione da noi conosciuta, e il problema più grave è dato dal fatto che solitamente, nei sistemi complessi, le transizioni tra diverse configurazioni stabili avvengono in modo caotico, non in modo lineare come ci si potrebbe ingenuamente aspettare.
Ma in quale modo gli esseri umani stanno forzando i meccanismi di regolazione della terra?
Innanzi tutto, bisogna dire che l’inquinamento è sempre dato dalla quantità. 
In natura infatti non esiste inquinamento: il letame prodotto da un bovino al pascolo alimenta e nutre le piante. Il letame prodotto da 100 bovini allevati in un campo troppo piccolo, però, rappresenta un vero e proprio inquinamento e distrugge l’erba di cui gli animali si nutrono.
Il più grande danno che arrechiamo alla terra (e dunque la più grande minaccia alla nostra sopravvivenza), è probabilmente costituito dall’agricoltura.
Tra non molto, avremo sostituito più di due terzi degli ecosistemi naturali terrestri con sistemi agricoli, e quando si sostituiscono le foreste naturali con coltivazioni o allevamenti di bestiame, si diminuisce notevolmente la capacità della superficie terrestre di controllare il proprio clima e i processi chimici.
Gli ecosistemi umani con cui si sostituiscono quelli naturali (terreni agricoli e territori urbani), sono vantaggiosi per noi, ma si rivelano pesantemente inefficienti per la regolazione di Gaia.
Qualunque tipo di organismo, infatti, per il fatto stesso di esistere, tende ad allontanare Gaia dal suo attuale equilibrio. Tutti gli organismi hanno un metabolismo che di per sé creerebbe situazioni di squilibrio. Un pianeta monocultura (e l’agricoltura moderna tende verso questa direzione), è quindi un esperimento mentale che non ha possibilità di esistere nella realtà.
Certamente, come succede con tutti i sistemi viventi, c’è molta sovrabbondanza e molte cose si possono distruggere e sostituire con ecosistemi produttivi (in termini umani), ma inefficienti (per Gaia) senza eccessive perdite; e tuttavia quella sovrabbondanza di Gaia non è un lusso, perché serve a far fronte a sollecitazioni anomale.
Tutti noi possiamo cavarcela con un solo rene, ma sarebbe imprudente toglierne uno e venderlo se si deve attraversare il deserto a piedi, affrontando lo stress della disidratazione.
La foresta tropicale mantiene fresca e umida la propria regione; facendo evaporare immense quantità di acqua mantiene una copertura bianca di nubi che riflettono la luce solare e portano la pioggia, contribuendo così al raffreddamento dell’intero pianeta.
L’esempio più noto delle conseguenze della deforestazione è quello di Harrapan, nel Pakistan occidentale. Un tempo la regione era coperta di foreste e soggetta ad abbondanti piogge durante la stagione dei monsoni: un ottimo esempio di ecosistema forestale autosufficiente.
La foresta fu gradualmente abbattuta per fare posto a nuovi pascoli e nuovi campi.
Le precipitazioni nella regione continuarono finché più della metà delle foreste non fu abbattuta, dopodichè la regione divenne improvvisamente arida e anche la foresta restante scomparve.
Adesso la regione è talmente arida che, come semideserto, può mantenere soltanto una piccola percentuale degli abitanti e degli altri organismi che un tempo vi vivevano. E tutta la Terra è un pochino più calda.
In realtà, nessuna delle agonie ambientali a cui stiamo assistendo avrebbe assunto dimensioni percepibili se al mondo ci fossero solo 50 milioni di esseri umani e anche se ce ne fossero un miliardo, questi problemi sarebbero conte-nibili. La popolazione mondiale, però, si stabilizzerà su un numero vicino ai 10 miliardi e non c’è più molto tempo per rendersi conto che l’umanità sta andando incontro a rischi molto grossi se non capirà che la natura non è solamente una fonte di risorse e materia di esclusivo valore economico.
Quello che è certo è che non è Gaia ad essere in pericolo. 
E neanche la specie umana rischia più di tanto anche se si verificassero le previsioni peggiori sui cambiamenti climatici per i prossimi decenni. Lo stesso non si può dire però per la società così come la intendiamo: sconvolgimenti climatici bruschi (Abrupt Climate Change, o ACC), di cui si parla recentemente, con conseguente innalzamento di diversi metri degli oceani, possono significarne la fine.

Per concludere con parole di Lovelock:
"L'essere umano è sul pianeta da almeno un milione di anni, perché dovrebbe estinguersi proprio ora? Le singole civiltà sono invece più fragili. Negli ultimi 5000 anni sono una trentina circa quelle scomparse che hanno lasciato solo ossa, pezzi d'artigianato o scritti dietro di sé. Per questo non c'è nessun motivo di pensare che la nostra civiltà sia imperitura. Unica consolazione: malgrado quello che vediamo oggi, l'intelligenza media dell'uomo aumenta con il passare dei secoli".

Sarà vero?! 

Una concezione del mondo collettivista

Collaborazione e cooperazione sono la base di una visione "di sinistra" della società, ma questi concetti sono in contraddizione con la concezione attuale del mondo, ancora legata ad un'interpretazione meccanicista della natura e dell'evoluzione: la natura è feroce e spietata e la selezione naturale è basata sulla competizione.Le nuove conoscenze scientifiche e la Teoria di Gaia, mostrano invece chiaramente che la competizione non è l'aspetto principale della natura e sviluppano, finalmente, una concezione del mondo collettivista. 

L'organizzazione borghese della società è coerente con il modello proposto della concezione del mondo attuale, il Meccanicismo, e per questo risulta vincente. Per la borghesia, il mondo (l'universo), è una macchina che l'umanità, massima espressione dell'evoluzione, ha il compito di utilizzare come meglio crede agendo sugli ingranaggi.In natura, la competizione feroce è la norma e quindi, essendo la vita una lotta all'ultimo sangue per la sopravvivenza, è giustificato anche lo sfruttamento umano e la soppressione dei più deboli.

Il Meccanicismo si deve a Cartesio, risale al 1600 e ha giustificato la caduta degli assolutismi, ma ormai non è più adatto a descrivere il mondo secondo gli attuali dati osservabili, un cambio di paradigma è quindi inevitabile.E' una concezione del mondo che ha cominciato ad entrare in crisi agli inizi del '900 con le teorie di Einstein e della Meccanica Quantistica e che è definitivamente crollata con le nuove Teorie dei Sistemi, del Caos, della Complessità e, infine, con la Teoria di Gaia. 

La scienza contemporanea non descrive più il mondo come una "macchina", ma come "sistema complesso" in cui le relazioni fra le varie parti sono inestricabili.Nei sistemi complessi, le caratteristiche osservabili emergono inaspettatamente e non sono prevedibili studiandone separatemente le singole parti (riduzionismo meccanicista). La biologia moderna, "sistemica", non parla più di evoluzione di una specie, ma di "coevoluzione" degli ecosistemi. Ecco quindi che la competizione perde di importanza a favore di una rete di relazioni che è più appropriato definire "collaborative".

In questo secolo il mondo ci è crollato addosso: l'uomo non è il figlio di un dio, non è il fine ultimo dell'evoluzione e non è il padrone né il "timoniere" del mondo. L'uomo è solo una delle moltissime specie che popolano il pianeta. Non è la più importante, non sarà l'ultima. L'umanità non è "circondata" dalla natura, ma è parte integrante di essa. Adesso il nostro riferimento deve essere l'intero sistema.Non possiamo più chiederci cos'è utile per gli uomini, la domanda deve essere: cosa è utile per il sistema. Se il sistema funziona, i vantaggi saranno anche nostri.

Solo rinunciando al ruolo che la borghesia ci ha illuso di avere nel mondo possiamo comprendere meglio la realtà, Questo ora è possibile, disponiamo di una nuova cultura, una cultura che per la prima volta possiamo definire collaborativa e dunque... di sinistra! Lo sviluppo di una cultura sistemica è infatti la condizione per modificare il nostro stile di vita (con conseguente diminuzione dei consumi inutili), per la diffusione di una mentalità di pace e per il rispetto delle altre forme di vita, che attualmente consideriamo solamente risorse di esclusivo valore economico... così come la classe dominante considera tutti noi.

Bibliografia

  1. James Lovelock - Gaia: manuale di medicina planetaria - Zanichelli 1992
  2. James Lovelock - Le nuove età di Gaia - Bollati Boringhieri 1991
  3. Lynn Margulis, Dorion Sagan - Microcosmo - Arnoldo Mondadori Editore 1989
  4. Tyler Volk - Il corpo di Gaia - Fisiologia del pianeta vivente - Utet 2001
  5. Fritjof Capra - La rete della vita - una nuova visione della natura e della scienza" - Rizzoli 2001
  6. Sandro Pignatti, Bruno Trezza - Assalto al pianeta - Attività produttiva e crollo della biosfera - Bollati Boringhieri 2000
  7. Gregory Bateson - Verso un'ecologia della mente - Adelphi 1977
  8. Gianfranco Minati - Sistemica - etica, virtualità, didattica, economia - Apogeo 1998
  9. Jeremy Rifkin - Entropia - Baldini & Castoldi - 2000
  10. Jeremy Rifkin - Ecocidio - ascesa e caduta della cultura della carne - Arnoldo Mondadori Editore 2001
  11. Mathis Wackernagel, William E. Rees - L'impronta ecologica - come ridurre l'impatto ambientale dell'uomo sulla terra - Edizioni Ambiente 2000

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Documento: 

Testi fondamentali

In questo paragrafo, si riportano degli estratti da alcuni dei testi fondamentali riguardo la Teoria di Gaia

Da L. Margulis

Lynn Margulis, nata e cresciuta a Chicago, ha completato la sua formazione culturale a Berkeley (California) . A partire dal 1970 è stata professore associato alla Boston University. In questa sede ha messo a punto la sua teoria sull'origine simbionte delle cellule eucariote. Nel 1981, Margulis ha pubblicato Symbiosis in Cell Evolution, dove la sua teoria originaria viene ulteriormente precisata.

 


 

James Lovelock, uno scrittore free-lance, esperto di chimica dell’atmosfera, vede la vita rappresentata da un sistema ambientale che si autosostenga e che egli chiama Gaia.

Gaia, nome dato dal romanziere William Golding (su richiesta di Lovelock) e derivato dall’antica dea greca della terra, opera in modi misteriosi. Sistema superorganismico, che comprende tutti i viventi della Terra, esso conserva ipoteticamente la composizione dell’aria e la temperatura sulla superficie del pianeta, regolando le condizioni per la continuazione della vita. Mentre l’intricato intreccio delle relazioni biologiche mediante le quali la vita fa questo non è ancora ben conosciuto il fatto che il bioma terrestre controlli porzioni della superficie del pianeta è un fatto altrettanto ben stabilito di quello per cui il nostro corpo si mantiene a una temperatura costante. Gaia, così. Può impedire che l’azoto e l’ossigeno atmosferici, così importanti per la vita, degenerino in nitrati e ossidi di azoto, in sali e gas esilarante che potrebbero bloccare l’intero sistema. Se non vi fosse una costante produzione a livello mondiale di nuovo ossigeno da parte degli organismi fotosintetizzanti, se non vi fosse liberazione di azoto gassoso da parte dei batteri che utilizzano per la respirazione nitrati e ammoniaca, si svilupperebbe rapidamente intorno alla Terra un’atmosfera inerte o addirittura velenosa. Sotto l’influenza reattiva di una grande quantità di fulmini che fanno sfavillare a ogni minuto l’atmosfera terrestre, la terra non sarebbe più ospitale per la vita di quanto lo è l’acida Venere. Sulla Terra l’ambiente è stato prodotto e controllato dalla vita proprio come la vita è stata prodotta e influenzata dall’ambiente.

La cosa sorprendente riguardo al nostro pianeta azzurro, chiazzato di bianco, è che la peculiarità della vita, con la sua incredibile diversità e caratteristica unità biochimica, continua. Essendo noi obbligati a comunicare gli uni con gli altri in una lingua tradizionale, è difficile afferrare la definizione della vita come sistema autopoietico che si riproduce. Eppure, secondo quanto sostiene Lovelock nella sua ipotesi, che egli ha chiamato ipotesi Gaia, lo stesso bioma terrestre ivi incluso l’ Homo sapiens, è autopoietico: riconosce, regola, e crea le condizioni necessarie per la propria ininterrotta sopravvivenza.

I reperti fossili appoggiano l’idea che la superficie terrestre sia stata soggetta senza interruzione a una regolamentazione fin dalla primissima comparsa e diffusione della vita microbiotica. L’ipotesi Gaia, secondo cui la temperatura e la composizione dell’atmosfera terrestre in gas reattivi sarebbero regolate attivamente dall’insieme di flora e fauna venne messa a punto da Lovelock mentre stava lavorando per la NASA sui modi di scoprire la vita su Marte. Lovelock trovò che, nella nostra atmosfera, coesistono gas che, quando vengono saggiati in sistemi chimici semplice, reagiscono prontamente, facilmente e completamente, per dare origine a composti stabili. Sembra però che questi gas rimangano separati, in apparente inosservanza delle leggi che regolano l’equilibrio chimico standard. Lovelock trovò la chimica dell’atmosfera terrestre così persistentemente bizzarra da poterla attribuire soltanto alle proprietà collettive degli organismi, in particolare al bioma terrestre. In effetti, questo, in particolare il bioma di dimensioni microscopiche, produce costantemente enormi quantità di gas reattivi. Ricercando questi improbabili miscugli di gas nelle atmosfere di altri pianeti con spettroscopi montati su telescopi, Lovelock pensava di poter scoprire senza lasciare la Terra biosfere estranee. Rivolgendo la propria attenzione a Marte, egli trovò che questo pianeta era in un equilibrio assolutamente comprensibile sulla base soltanto della chimica e della fisica. Postulò l’assenza della vita su di esso rilevando l’assenza del fenomeno Gaia. Ma, nel 1975, la NASA, pronta per l’atterraggio sul pianeta rosso, non volle pubblicizzare la semplice soluzione che egli proponeva per l’annoso problema della vita su Marte.

Nulla, tuttavia, andò perduto. La missione Viking ebbe inizio nel 1975 e, nel 1976, due satelliti da atterraggio e due in orbita giunsero su Marte. Gli esperimenti biologici, effettuati a bordo e in seguito a atterraggio morbido sulla superficie del pianeta, ebbero un successo spettacolare, dimostrando in modo definitivo che non vi era alcun segno di vita sul pianeta rosso. Il lavoro di Lovelock fornì una base per capire i risultati. Inoltre, l’analisi da lui condotta diede alla biosfera una nuova veste. Il mistero della vita sulla Terra era altrettanto grande di quanto questo stesso mistero lo fosse altrove, nell’universo. Perché la Terra ha un’atmosfera così diversa da quella che si può prevedere su semplice base chimica? Dato che l’ossigeno costituisce il 20% dell’atmosfera, gli squilibri relativi creati, tra gli altri gas, nel metano, nell’ammoniaca, nei gas sulfurei, nel cloruro di metile sono enormi. In base ai calcoli chimici, le quantità di questi gas, che reagiscono così facilmente con l’ossigeno, dovrebbero essere così minime da non potersi riconoscere. Invece esse sono presenti e continuano a esserlo ogniqualvolta le si cerchi. In effetti, vi è una quantità di metano, nell’atmosfera terrestre, che è superiore di 1035 volte (dieci alla trentacinquesima potenza, o uno seguito da trentacinque zeri) alla quantità che dovrebbe esserci, considerando la quantità di ossigeno disponibile per reagire con essa. Altri gas, come l’azoto, il monossido di carbonio e l’ossido nitroso sono solo più abbondanti di 10 miliardi, 10 e 10000 miliardi di volte, rispetto a quello che dovrebbero essere sulla base della chimica soltanto.

Un ulteriore enigma riguarda la temperatura della Terra. Sembra che le leggi della fisica rendano inevitabile il fatto che la luminosità totale del Sole, cioè il suo output di energia come luce, sia aumentata negli ultimi 4 miliardi di anni, forse anche del 50%. Eppure, da prove ricavate dai reperti fossili indicano che la temperatura terrestre è rimasta relativamente stabile, oscillando il valor medio attorno a 22° C circa, pressappoco la temperatura ambiente, malgrado le temperature molto basse che ci si aspetta da uno sparuto Sole primitivo. È risultato, dunque, che la vita non solo regolava su scala mondiale la composizione dei gas, ma teneva, a quanto pare, sotto una specie di controllo continuo anche la stessa temperatura del pianeta. Che cos’era questo grande termostato nascosto?

Respingendo le soluzioni mistiche, Lovelock teorizzò che il bioma terrestre, specialmente il microcosmo batterico, doveva aver regolato il proprio ambiente su scala globale fin dalla sua primissima comparsa sul pianeta. Le forme di vita reagiscono alle crisi geologiche e cosmiche che provocano perturbazioni; resistono quanto più a lungo possibile agli attacchi che vengono portati alla loro integrità individuale; e queste azioni individuali portano a una conservazione generale delle condizioni favorevoli alla sopravvivenza collettiva. (Ciò non significa che non vi furono mai fluttuazioni: esse ci furono. Per esempio, a giudicare dalla grande estensione dei fossili delle foreste tropicali del Cretaceo, il pianeta doveva essere ben più caldo all’epoca dei dinosauri. Sia prima sia dopo buona parte della sua superficie fu coperta da ampie distese di ghiaccio. Ma sia tra l’una e l’altra di queste fluttuazioni sia dopo di esse la Terra si stabilizzò, non arroventandosi come Venere, né congelando come Marte.

Se il bioma terrestre non avesse risposto alle principali perturbazioni esterne come l’aumento della luminosità solare o gli impatti meteoritici, tanto devastanti quanto lo sono oggi le bombe nucleari, non saremmo qui ora. La vita, concludeva Lovelock, non è circondata da un ambiente essenzialmente passivo a cui essa si è adattata. Al contrario, essa fa e rifà il proprio ambiente. L’atmosfera, come un alveare o un nido di uccello, è parte della biosfera. Poiché l’anidride carbonica viene trasformata nelle cellule e può essere anche utilizzata per controllare la temperatura dell’atmosfera, è probabile che un modo in cui la vita regoli la temperatura del pianeta sia modulando il livello atmosferico di anidride carbonica.

Alcuni scienziati contestano l’analisi di Lovelock. L’idea della vita sulla terra come superorganismo che risponde alle minacce a agli insulti ambientali per assicurarsi la sopravvivenza non concorda con le idee ormai accettate dell’evoluzione darwiniana, la quale dipende dalla competizione di organismi in lotta. Ammettendo che Lovelock abbia ragione, come fa la massa di geni in lotta all’interno delle cellule di organismi localizzati sulla superficie terrestre a sapere che deve affrontare delle crisi? W. Ford Doolittle, l’esperto di biologia molecolare che ha effettuato una ricerca, germe di ulteriori sviluppi, sulla biologia molecolare dei plastidi, protestò contro questa nozione di natura, come egli la definiva, "materna". Richard Dawkins, zoologo dell’Università di Oxford, paragonò l’ipotesi Gaia al programma "BBC theorem", con un riferimento spregiativo alla nozione della natura come equilibrio e armonia meravigliosi, data dai documentari televisivi. Dawkins non poteva concepire l’evoluzione dei meccanismi di Gaia, di controllo a livello mondiale, senza un universo "pieno di pianeti morti, i cui sistemi di regolazione omeostatica erano venuti meno, e con una manciata di pianeti ben regolati, ben riusciti, sparsi tutt’attorno e di cui uno era la Terra."

Per rispondere a queste critiche, Lovelock progettò alcuni modelli matematici. Quello più spettacolare, il Daisy World (il mondo delle margherite), considera un pianeta mitico che può essere ricoperto soltanto da margherite nere e bianche e da una occasionale mucca che mastica rumorosamente margherite. Le margherite rappresentano due specie, che crescono entrambe a chiazze e ricoprono fino al 70% del pianeta entro intervalli specifici di temperatura. Entrambe non crescono affatto dove fa molto freddo, crescono lentamente al freddo, più rapidamente al caldo e non crescono affatto, anzi muoiono, alle temperature opprimenti al di spora dei 45°C.

Lovelock, che in seguito cominciò a lavorare con Andrew Watson alla Marine Biological Association di Plymouth, in Inghilterra, trovò che le margherite bianche e nere potevano funzionare come un gigantesco termostato, rendendo stabile la temperatura di un intero pianeta semplicemente crescendo. Il fenomeno non è misterioso, ma sinergico: è il risultato inatteso di un sistema complesso.

Si può immaginare come operi Daisy World. Si prenda un pianeta di margherite nere e bianche, che ruoti attorno a una stella, il Sole, la quale rallenta ma diventa costantemente più brillante. All’inizio, essendo il Sole freddo, non cresceranno molte margherite. A mano a mano che esso diventerà più caldo, chiazze di margherite di entrambi i colori spunteranno e cresceranno rigogliosamente. Ma, quando le margherite nere fioriranno e produrranno un maggior numero di discendenti, perché sono scure e assorbono una la luce del Sole, impediranno a questa luce di essere riflessa nello spazio. La crescita di macchie di margherite nere, che assorbono calore, ha l’effetto di riscaldare un pianeta che, altrimenti, sarebbe freddo. Ma ben presto l’ambiente circostante raggiunge un calore opprimente e comincia a limitare la crescita delle margherite nere nelle immediate vicinanze. L’aumento delle temperature locali porta a un aumento globale della temperatura più forte del previsto, in un mondo senza margherite. Cominciano allora a crescere chiazze di margherite bianche. Ciò porta a un aumento della riflettività planetaria, o albedo, dato che la superficie bianca dei petali delle margherite riflette la luce nello spazio, con la conseguenza di un ritorno su tutto il pianeta a temperature più fredde. Le margherite nere ricominciano a spuntare. Ma il Sole, nel frattempo, continua a diventare più caldo e le margherite bianche, riflettendo il calore, continuano a fiorire e a raffreddare il pianeta. In breve, il Sole diventa più caldo, si formano chiazze sempre più estese di margherite bianche, Daisy World diventa più freddo, il che porta a una nuova crescita di chiazze di margherite nere, le quali di nuovo si surriscaldano, creando ancora una voltale condizioni più favorevoli alle margherite bianche. Ciò raffredda nuovamente Daisy World incrementandone l’albedo, e così via fino a che il Sole diventa una gigante rossa e brucia tutte le margherite. Ma, entro certi limiti di temperature, le margherite funzionano molto semplicemente da termostato, mantenendo il mondo vivibile, malgrado un aumento potenzialmente letale della quantità di energia solare che raggiunge il pianta. I fiori regolano silenziosamente la temperatura del pianeta fino a un grado notevole, entro quello stretto intervallo che è necessario alla loro sopravvivenza quando il Sole si riscalda inesorabilmente.

In modelli più simili al mondo reale sono la crescita, il metabolismo e le proprietà che riguardano gli scambi di gas nei microbi, più che le margherite, a formare i complessi sistemi di retroazione fisici e chimici che modulano la biosfera in cui viviamo. Gli organismi viventi, attraverso il loro effetto sull’acqua e sulle nubi, hanno una immensa influenza modulatrice sulla Terra. Tanto per fare un esempio, minuscole alghe che galleggiano sul mare possono ipoteticamente fare entrare il mondo in un’epoca glaciale semplicemente crescendo più rapidamente alle latitudini settentrionali. Nel produrre i guscetti di carbonato di calcio, morendo e inabiassandosi sul fondo dei mari, rimuovono il carbonio necessario per produrre anidride carbonica; poiché l’anidride carbonica è un gas da "effetto serra", che agisce come manto invisibile che fa entrare la luce e la trattiene sotto forma di calore, una minore quantità di anidride carbonica nell’atmosfera si traduce in un abbassamento delle temperature. Ma, con temperature più basse, le alghe crescono meno, meno anidride carbonica viene rimossa nell’aria per produrre guscetti e il pianeta diventa tropicale. I circuiti di retroazione sono, perciò, così strettamente collegati che una moria massiccia di alghe marine, accoppiate all’erosione di rocce carbonatiche da parte dell’acqua, processo che libera anidride carbonica nell’atmosfera, può anche provocare un aumento termico dell’atmosfera.

In effetti, nel 1979 e 1980, i ricercatori europei hanno analizzato dell’aria "fossile", rimasta intrappolata nei ghiacci polari e hanno trovato che circa 20000 anni or sono, al culmine dell’ultima glaciazione, l’anidride carbonica aveva una concentrazione pari sola a due terzi di quella che si sarebbe avuta all’inizio della rivoluzione industriale. Immediatamente prima che gli esseri umani diventassero agricoltori e costituissero le prime civiltà, l’anidride carbonica raggiunse il livello preindustriale. L’aumento di anidride carbonica e della temperatura 12000 anni or sono ebbe luogo in meno di 100 anni e non può essere interamente spiegato da processi tradizionali geofisici o geochimici, come l’attività tettonica o il corrugamento. Una fluttuazione così improvvisa poteva provenire solamente dalla vita. Lovelock ritiene che l’improvvisa moria di una percentuale sostanziale di alghe marine causò probabilmente questo rapido aumento della temperatura mondiale, una trasformazione ambientale che alla fine permise agli esseri umani di uscire dalle caverne e di popolare la Terra.

Col tempo, il bioma terrestre edificò elaborati sistemi di controllo di cui solo ora stiamo diventando vagamente consapevoli. La moltitudine dei sistemi sensoriali negli organismi viventi, la capacità di questi di avere un metabolismo e una crescita esponenziale e la straordinaria diversità dei viventi che interagiscono sulla Terra sono sufficienti a spiegare, in teoria, la modulazione ambientale su scala globale.

Ma questo genere di modulazione ambientale opera anche su una scala più piccola. Anche sulla scala di gran lunga più piccola dei singoli animali, la regolazione della temperatura comporta più di un semplice singolo sistema di retroazione. Realizziamo un esperimento mentale in cui una persona (un insieme di cellule, come il bioma terrestre) deve affrontare un netto calo della temperatura ambientale. Il suo primo tipo di risposta sarebbe la tattica evolutasi più di recente: una risposta da alta tecnologia, che consisterebbe nel girare il termostato, nell’inserire il radiatore elettrico, o addirittura nel pagare per il servizio di teleriscaldamento attraverso un modem del proprio computer domestico. Benché queste modalità diventeranno forme sempre più comuni di regolazione della temperatura, esse sono così recenti da essere ancora estremamente incerte tra i vari sistemi di retroazione. A un livello più basso, vi sono invece le risposte da "bassa tecnologia" ai rischi delle basse temperature: avvolgersi in coperte e vestirsi con abiti più pesanti. Questo tipo di tecnologia, ereditata dall’abitudine di prendere in trappola gli animali di climi freddi o cacciarli, utilizzando poi le loro pelli e pellicce folte per proteggersi, è antica di circa 100000 anni. Il cucito, un suo importante perfezionamento, potrebbe, a giudicare dai reperti archeologici di aghi per cucire il legno, avere aiutato le popolazioni orientali ad attraversare lo stretto di Bering per recarsi nell’America settentrionale. Il circuito di retroazione dei vestiti è semplice: quando la temperatura si abbassa i vestiti vengono indossati; quando si innalza vengono tolti. La regolazione della temperatura, come comportamento, ha fatto la sua comparsa negli esseri umani molto prima che venissero costruiti i sistemi di riscaldamento a base di combustibili fossili ed è ancor oggi predominante.

Se continuiamo a sottoporre il soggetto del nostro esperimento a uno stato di stress, indurremo in lui un metodo di regolazione della temperatura ancora più antico e ancora più affidabile: si tratta di sistemi comportamentali, non tecnologici, di retroazione. Queste risposte si possono fare risalire a qualcosa come 200 milioni di anni or sono e consistono nel correre, nel fregarsi braccia e gambe, nel rannicchiarsi e nell’assumere la posizione fetale, arrotolandosi, quando si ha freddo. Quando sono minacciati dal caldo, i mammiferi come noi reagiscono con un comportamento opposto: stendono gli arti e cercano l’ombra. In generale diventano meno attivi. Tuttavia i mammiferi condividono questo tipo di meccanismo di controllo della temperatura, che dipende dall’avere un sistema nervoso sufficientemente complesso, base del comportamento appreso. A mano a mano che ci avviciniamo al microcosmo originale, i sistemi di retroazione diventano ancora più prevedibili, fondamentali e affidabili.

Ancora più antichi dei sistemi comportamentali sono i tipi di controllo rigorosamente fisiologici. Quando l’ambiente si raffredda, i vasi sanguigni dei mammiferi si allontanano automaticamente dalla superficie cutanea per contrazione dei muscoli che si trovano nelle loro pareti. Più lontano della pelle, il sangue viene rifornito agli organi vitali in maggiore quantità e gli organismi risultano così più protetti. Segue il congelamento: le dita delle mani e dei piedi ed altre estremità diventano fredde come ghiaccio e intirizzite. Se il soggetto è ancora sotto stress, si ha il distacco delle estremità. Il naso e la punta delle orecchie, le dita delle mani e dei piedi si staccano. La sudorazione, che è la risposta opposta, si basa sull’evaporazione di acqua per raffreddare il corpo. Queste risposte fisiologiche alla temperatura sono ancora più antiche e ben radicate delle altre. Forse sono tanto antiche quanto gli stessi animali (circa 600 milioni di anni or sono).

Se, nel nostro esperimento mentale, continuiamo a sottoporre il soggetto alla tensione del freddo, spingiamo fino al limite il suo sistema autopoietico e mettiamo a nudo l’antico metodo genetico di controllo della temperatura. Se l’ambiente diventa freddo oltre il limite di tolleranza dell’uomo, questi muore e non lascia (ulteriore) prole. Se la tensione del freddo continua, l’intera popolazione e comunità congela fino a morire senza lasciare discendenti. Tuttavia, nuove popolazioni e comunità sostituiscono le vecchie, e alcune hanno mezzi più efficaci per combattere il freddo. Solo organismi diversi o mutanti, in grado di tollerare condizioni climatiche rigide, riusciranno a sopravvivere. Un’enorme pressione selettiva viene esercitata su quegli organismi che possono migliorare gli effetti dell’ambiente e del freddo circostante.

Questo è ciò che è avvenuto di solito nel mondo. Se la tensione è abbastanza forte, sopravviveranno soltanto gli organismi tolleranti. In altre parole, quando fa troppo caldo, le cellule muoiono. Quando fa troppo freddo, le cellule muoiono. Quando la temperatura è giusta, le cellule lasciano una numerosa progenie. Ma il "giusto" della temperatura dipende da ogni genere di vita. La selezione naturale darwiniana è l’ultimo antico sistema di retroazione di Gaia su cui tutti quelli tecnologici e comportamentali più recenti si basano. Oggi, se si ha freddo si accende il riscaldamento, quindi si mette un maglione, poi si comincia a tremare per generare calore. Se il freddo incalza ancora, si entra in uno stato di torpore, in cui il metabolismo si abbassa; se il freddo aumenta ancora e non cede, si muore. Ma la morte individuale fa parte dei sistemi più ampi di stabilizzazione ambientale. Prima di morire, l’individuo ha fatto aumentare la temperatura ambientale e, morendo e non lasciando una prole simile a sé, ha fatto diminuire le probabilità che i futuri periodi di freddo distruggano la vita, spianando la via alla riproduzione di organismi adattati alle basse temperature.

Sistemi viventi di regolazione della temperatura e dell’atmosfera a livello planetario possono solo essere immaginati. Da una prospettiva planetaria, tuttavia, non sembra che essi siano in un equilibrio naturale difficile, sull’orlo del collasso. Al contrario, sono vigorosi. I sistemi di controllo ambientale più importanti sono le istituzioni microcosmiche collaudate dal tempo, che producono gas e modificano l’albedo, e che sono di gran lunga più resistenti e più antiche della combustione di oli minerali per riscaldamento e dell’impiego di termostati domestici. Per quanto riguarda il futuro, la nostra specie potrebbe essere come quelle margherite nere rigogliose, che crescono così rapidamente da rendere ottimale l’ambiente per altre margherite, perfino quando si arroventano sino alla morte. Ogni individuo, popolazione o specie è un’opzione che si esercita soltanto in condizioni favorevoli. In caso di catastrofe, come regolarmente avviene nella storia della vita, alcune opzioni non saranno più valide. Ma la loro fine, sia come morte individuale sia come estinzione, renderà la biosfera nel suo insieme più robusta, più complessa e con maggiore capacità di ripresa. (Ciò, naturalmente, non ha nulla a che vedere con il progresso o il benessere umano. Nella documentazione fossile non si nota alcun segno di progresso, solo di cambiamento ed espansione.)

Inoltre, sembra che la maggior parte delle opzioni procariotiche non si sia ancora estinta. Né l’esistenza né l’estinzione di specie sono una proprietà dei batteri. Benché la morte individuale dei batteri avvenga senza interruzione, forti pressioni sul regno delle monere per la capacità di effettuare scambi genetici a livello mondiale hanno portato al rapido scambio di biotecnologie naturali, a enormi tassi di crescita delle popolazioni e, in generale, alla capacità di resistere con attitudini metaboliche intatte anche durante le più gravi crisi planetarie.

Solo con un’esplorazione scientifica completa dei meccaniscmi di controllo di Gaia ci si può attendere di attuare nello spazio habitat viventi che si autosostentino. Se mai dovessimo progettare ecosistemi chiusi in grado di rifornire le loro proprie riserve vitali, dovremmo studiare la tecnologia naturale della Terra. Abitare altri mondi, avere la possibilità di passeggiare in giardini, per esempio, su Marte, è un progetto gigantesco, che si può pensare soltanto da una prospettiva di Gaia. Dovremmo conoscere le nostre radici nel microcosmo prima di andare in quel limbo che è il supercosmo. Ma, sia che l’uomo porti nello spazio l’ambiente primevo dell’antico microcosmo si che, cercando di farlo, muoia, sembra proprio che la vita sia tentata in questa direzione. E la vita, finora, ha resistito a tutto, tranne che alla tentazione.

Da L. Margulis 2

[...] Dal paramecio all'uomo, tutte le forme di vita sono dotate di un'organizzazione minuziosa, sono aggregati raffinati di una vita microbica in evoluzione. Lungi dall'essere rimasti indietro in una "scala" evolutiva, i microrganismi ci circondano e compongono il nostro essere. Tutti gli organismi attuali, essendo sopravvissuti fin dagli albori della vita lungo una linea che non si è mai interrotta, si trovano a un eguale livello di evoluzione.

Questa constatazione serve a smascherare in maniera netta la vanità e la presunzione insite nel tentativo di misurare l'evoluzione mediante una progressione lineare dal semplice (il cosiddetto inferiore) al più complesso (con gli esseri umani in cima alla gerarchia, come le forme situate in assoluto "più in alto"). Come vedremo, gli organismi più semplici e più antichi sono non soltanto i predecessori delle comunità biotiche terrestri e del loro attuale substrato, ma sono anche pronti a espandersi e a modificare se stessi e il resto dei viventi, se noi, organismi "superiori", fossimo così sciocchi da annientarci. La visione dell'evoluzione come competizione cruenta cronica tra individui singoli e specie, distorsione della teoria darwiniana della "sopravvivenza del più idoneo", si dissolve dinanzi alla visione nuova di una cooperazione continua, di un'interazione forte e di una dipendenza reciproca tra forme di vita. La vita non prese il sopravvento sul globo con la lotta [1], ma istituendo inter relazioni (neretto nostro ndr). Le forme di vita si moltiplicarono e divennero sempre più complesse attraverso una cooptazione di altre, non soltanto attraverso la loro estinzione. Non potendo vedere il microcosmo [2] a occhio nudo, tendiamo a sminuirne l'importanza. Eppure, dei tre miliardi e mezzo di anni, cioè da quando la vita è presente sulla Terra, l'intera storia dell'umanità, dalle caverne ai palazzi in condominio, rappresenta molto meno dell'un per cento. Non soltanto la vita ebbe origine sulla Terra in una fase molto precoce della storia di questa come pianeta, ma per i primi due miliardi di anni essa fu rappresentata esclusivamente da microrganismi batterici.

In effetti, i batteri e la loro evoluzione sono così ricchi di significato che la divisione fondamentale tra le forme di vita sulla Terra non è tra piante e animali, come si suppone comunemente, ma tra Procarioti, organismi composti di cellule prive di un nucleo ben definito, cioè i batteri, ed Eucarioti, cioè tutte le altre forme di vita. Nei primi due miliardi di anni sulla Terra, i Procarioti continuarono a trasformare la superficie terrestre e l'atmosfera. Inventarono tutti i sistemi chimici miniaturizzati, essenziali per la loro esistenza: un'impresa che finora l'umanità non è riuscita a realizzare. Quest'antica "alta bio - tecnologia" portò allo sviluppo della fermentazione, della fotosintesi e della respirazione aerobica e alla fissazione dell'azoto dell'aria. Portò anche alle crisi mondiali di carestia, inquinamento ed estinzione, molto prima dell'avvento delle forme di vita aventi una maggior mole. Questi incredibili avvenimenti che ebbero luogo in una fase precoce della storia della vita sulla Terra furono possibili per l'interazione di almeno tre dinamiche dell'evoluzione, scoperte di recente. La prima è costituita dalle notevoli capacità di orchestrazione del DNA. [...]

Sotto il controllo del DNA, la cellula vivente produce una copia di sé, sfidando così la morte e conservando la propria identità attraverso la riproduzione. Eppure, essendo anche suscettibile di mutazioni, che modificano a caso la sua identità, la cellula ha la capacità di sopravvivere al cambiamento. La seconda dinamica evolutiva è una specie di ingegneria genetica naturale. Prove in suo favore si sono accumulate da tempo nel campo della batteriologia. Nel corso degli ultimi cinquant'anni gli scienziati hanno osservato che i procarioti trasferiscono abitualmente e rapidamente differenti frammenti del loro materiale genetico ad altri individui [3]. In qualsiasi momento, ogni batterio può utilizzare questi geni accessori, che provengono talvolta da ceppi molto diversi e svolgono funzioni per le quali il suo DNA non è competente. Alcuni di questi frammenti vengono ricombinati con i geni originali della cellula; altri vengono ulteriormente trasferiti. Alcuni frammenti genetici estranei possono inserirsi facilmente anche nell'apparato genetico delle cellule eucariotiche (per esempio, le nostre cellule). Questi scambi fanno parte abitualmente del repertorio procariotico. Eppure, ancora oggi, molti batteriologi non afferrano il loro pieno significato e cioè che, come conseguenza di questa capacità, tutti i batteri del mondo hanno accesso a un unico pool genico e, pertanto, ai meccanismi adattativi dell'intero regno batterico. La velocità di ricombinazione è superiore a quella di mutazione [4]: gli eucarioti potrebbero aver bisogno di un milione di anni per adattarsi a un cambiamento su scala universale al quale i batteri riescono, invece, ad adattarsi soltanto in pochi anni. Adattandosi costantemente e rapidamente alle condizioni ambientali, gli organismi del microcosmo sostengono l'intera comunità biotica, dato che la loro rete di scambi globali interessa, in definitiva, ogni pianta e animale vivente [5]. L'uomo sta imparando proprio queste tecniche quando ricorre all'ingegneria genetica, per mezzo della quale vengono prodotte sostanze chimiche inserendo geni estranei in cellule che si riproducono. Queste tecniche cosiddette "nuove" sono, invece, utilizzate dai Procarioti da miliardi di anni e, come risultato, il pianeta è reso fertile e abitabile da forme di vita di maggiori dimensioni. Ciò avviene grazie a un "superorganismo" costituito dai batteri, che comunicano e cooperano tra loro su scala universale.

Per quanto di vasta portata, la mutazione e il trasferimento genetico nei batteri non riescono da soli a spiegare l'evoluzione di tutte le forme di vita sulla Terra oggi. In una delle più stimolanti scoperte della moderna microbiologia, indizi che fanno pensare a una terza possibilità di cambiamento sono emersi osservando i mitocondri [6], minuscole inclusioni avvolte da membrana e presenti nelle cellule degli animali, delle piante, dei funghi e dei protisti. I mitocondri, pur trovandosi al di fuori del nucleo nelle cellule moderne, hanno geni propri, costituiti da DNA. Diversamente dalle cellule, essi si riproducono per semplice divisione e lo fanno in tempi diversi da quelli della restante massa cellulare. Senza di loro, la cellula nucleata, e pertanto l'intera pianta o l'intero animale, non potrebbe utilizzare l'ossigeno e, di conseguenza, non potrebbe vivere. Davanti ai biologi, che continuavano a interrogarsi e a meditare su questo punto, si schiuse alla fine uno scenario sorprendente: i discendenti di quei batteri che, tre miliardi di anni or sono, nuotavano nei mari primitivi respirando ossigeno, sono presenti oggi nei nostri corpi sotto forma di mitocondri. A un certo momento, gli antichi batteri si sono combinati con altri microrganismi, fissando all'interno di questi la loro residenza, provvedendo all'eliminazione delle scorie e al rifornimento di energia derivata da processi di ossigenazione in cambio di cibo e di protezione. Questi organismi "fusi insieme" si evolvettero poi in forme di vita più complesse, che respiravano ossigeno. Vi fu, dunque, in questo caso un meccanismo evolutivo più brusco della mutazione: una alleanza simbiotica [7] che divenne permanente. Alleanze di questo tipo, con la creazione di organismi che non sono semplicemente la somma delle loro rispettive parti che entrano in simbiosi, ma piuttosto qualcosa di simile alla somma di tutte le possibili combinazioni di queste parti, sospingono gli esseri in via di sviluppo verso reami inesplorati. La simbiosi, cioè la fusione di organismi diversi in nuova collettività, risulta dunque un'importante forza di mutamento sulla Terra.

Quando ci esaminiamo come prodotti di una simbiosi protrattasi per miliardi di anni, le prove a favore di una nostra origine plurimicrobica diventano schiaccianti. Il nostro corpo contiene in sé una vera e propria storia della vita sulla Terra. Le cellule conservano un ambiente ricco di carbonio e di idrogeno, come quello della Terra quando la vita ebbe inizio. Vivono in un mezzo costituito da acqua e sali, che ricorda la composizione dei mari primitivi: diventammo quelli che siamo grazie all'associazione di partner batterici in un ambiente acquoso. [...]

[...] Nei particolari della loro struttura le cellule rivelano i segreti dei loro antenati. Le immagini al microscopio elettronico di cellule nervose mettono in evidenza, in tutti gli animali, numerosi organelli appariscenti, i "microtubuli" [8]. Le ciglia con movimento ondulatorio, che sono presenti nella mucosa di rivestimento della gola, e la coda degli spermatozoi umani, un flagello con battito a frustino, hanno entrambi la stessa insolita distribuzione dei microtubuli, a disco combinatore telefonico, che hanno le ciglia dei ciliati, un gruppo di microrganismi ben affermati, che comprendono più di 8000 specie diverse. Questi stessi microtubuli compaiono in tutte le cellule degli animali, delle piante e dei funghi ogniqualvolta esse si dividono. E constano, enigmaticamente, delle stesse proteine che sono presenti nel cervello umano. Queste proteine sono straordinariamente simili ad alcune di quelle che si trovano in certi batteri che si spostano a grande velocità e hanno una forma che ricorda il cavatappi. Queste e altre vestigia viventi di individui un tempo separati, scoperte in varie specie, non fanno che accrescere la certezza che tutti gli organismi visibili si siano evoluti per simbiosi, cioè vivendo insieme in una condizione di reciproco beneficio mediante la condivisione permanente di cellule e corpi.

[...] Noi, membri del macrocosmo, continuiamo a interagire con il microcosmo e a dipendere da esso, come pure reciprocamente, tra di noi, dipendiamo l'uno dall'altro. Certe famiglie di piante, per esempio le leguminose, che comprendono il pisello, il fagiolo e altre specie affini quali trifoglio e veccia, non riescono a vivere in un terreno povero di azoto senza batteri azotofissatori nei loro noduli radicali, e noi stessi non possiamo fare a meno delI'azoto che proviene da queste piante. Né i bovini né le termiti riescono a digerire la cellulosa dell'erba e del legno quando mancano comunità di microbi particolari, che sono normalmente presenti nel loro intestino. Un buon 10% del nostro peso secco consiste di batteri, alcuni dei quali, pur non facendo parte del nostro corpo in modo congenito, sono assolutamente indispensabili per la nostra sopravvivenza. Questa coesistenza, che non va considerata come una semplice stravaganza della natura, è la materia prima dell'evoluzione. Se, per esempio, I'evoluzione continuasse ancora per alcuni milioni di anni, quei microrganismi che producono vitamina Bl2 nel nostro intestino diventerebbero parte integrante delle nostre cellule. Un'aggregazione di cellule specializzate può diventare un organo. Si è addirittura assistito in laboratorio all'unione di batteri un tempo letali con amebe; si è creata così, nel tempo, una nuova specie di ameba ibrida. Questa rivoluzione nello studio del microcosmo ci mette di fronte a una situazione elettrizzante: non è irragionevole supporre che la consapevolezza che ci consente di sondare l'attività delle cellule che costituiscono il nostro organismo possa aver avuto origine nelle capacità concertate di milioni di microbi, che si sono evoluti per simbiosi per diventare il cervello umano. Questa consapevolezza ci ha portato oggi a "rappezzare" il DNA e abbiamo cominciato ad attingere all'antico processo del trasferimento genetico nei batteri. La nostra capacità di produrre nuovi generi di vita può essere vista come il modo più recente in cui la memoria organica (cioè il ricordo del passato e la sua attivazione nel presente) diventa più acuta. In uno di quei giganteschi circuiti della vita che fanno sempre riferimento a se stessi, la mutabilità del DNA ci ha reso consapevoli della possibilità di modificarlo. La curiosità, la sete di sapere, I'entusiasmo di entrare nello spazio e di diffondere noi stessi e le nostre sonde su altri pianeti e al di là di essi costituiscono in parte la lama tagliente di quelle strategie che la vita mette in atto per espandersi e che ebbero inizio nel microcosmo all'incirca tre miliardi e mezzo di anni or sono. Non siamo che il riflesso di un'antica tendenza. Dai primi batteri ai batteri attuali, miriadi di organismi formatisi per simbiosi sono vissuti e sono morti. Ma il comune denominatore microbico rimane essenzialmente immutato. Il nostro DNA deriva, lungo una sequenza ininterrotta, dalle stesse molecole che erano presenti nelle cellule primordiali, formatesi ai bordi dei primi oceani caldi e poco profondi. I nostri corpi, come quelli di tutti gli esseri viventi, conservano in sé l'ambiente di una Terra passata. Coesistiamo con i batteri di oggi e ospitiamo in noi vestigia di altri batteri, inclusi simbioticamente nelle nostre cellule. In questo modo, il microcosmo vive in noi e noi in esso. Alcuni potrebbero trovare quest'idea allarmante, sconvolgente. Oltre a far scoppiare quel pallone gonfiato che è la nostra presunzione di sovranità su tutto il resto della natura, essa lancia la sfida anche alle nostre concezioni di individualità, di unicità e di indipendenza. Non rispetta nemmeno la visione che abbiamo di noi stessi come esseri fisici ben distinti, separati dagli altri viventi. Il pensare all'umanità e all'ambiente che la circonda come a un mosaico di vita microscopica è come immaginare che essa venga presa, dissolta, annientata. Ancora più allarmante è la conclusione filosofica alla quale arriveremo più avanti, e cioè che il possibile controllo cibernetico della superficie terrestre da parte di organismi non intelligenti metta in dubbio la presunta unicità della consapevolezza intelligente umana. Paradossalmente, ingigantendo il microcosmo per trovare le nostre origini, possiamo apprezzare chiaramente sia la grandiosità sia l'irrilevanza dell'individuo. La più piccola unità vivente, per esempio una singola cellula batterica, è un monumento di organizzazione e di funzionalità, che non trova pari nell'universo quale noi lo conosciamo. La storia di ogni individuo che cresce, che raddoppia la propria mole e che si riproduce, è una storia di grande successo. Eppure, proprio come il successo del singolo individuo si riassorbe in quello della specie a cui egli appartiene, così la specie viene inglobata nell'intreccio che interessa tutti i viventi: un successo che ha un ordi ne di grandezza ancora superiore. È allettante, anche per gli scienziati, lasciarsi entusiasmare da storie di personaggi giunti al successo partendo dal nulla. Dai discepoli di Darwin agli esperti contemporanei di ingegneria genetica, la scienza ha divulgato l'idea che la specie umana, sulla Terra, si trovi alla sommità della "scala" evolutiva e che, con la tecnologia, sia andata oltre i limiti della stessa evoluzione. Qualche scienziato eminente e raffinato, come per esempio Francis Crick nel volume Life itself, dice che la vita in generale, e la coscienza umana in particolare, sono un tale miracolo da non poter essere affatto di origine terrestre, ma, al contrario, da dover essere state originate in un altro punto dell'universo.4 Altri ancora credono che gli esseri umani siano prodotti da una "intelligenza superiore", dotata di un atteggiamento paterno: che siano i figli di un patriarca divino. Questo libro è stato scritto per dimostrare che concezioni del genere sottovalutano la Terra e le vie della natura. Nulla prova che gli esseri umani siano i sommi amministratori della vita su questo pianeta, né la discendenza svilita di un'entità extraterrestre superintelligente. C'è la prova, invece, che siamo il frutto della ricombinazione di potenti comunità batteriche, con una storia di molti miliardi di anni. Facciamo parte di un intreccio aggrovigliato che deriva dall'originaria conquista della Terra da parte dei batteri. Le capacità di intelligenza e tecnologia non ci appartengono in modo specifico, ma sono di tutti i viventi. Poiché raramente gli attributi utili vengono scartati nel corso dell'evoluzione, è probabile che i nostri poteri, derivatici dal microcosmo, permarranno nel microcosmo. Intelligenza e tecnologia, mantenute in incubazione dal genere umano, appartengono in realtà al microcosmo e può darsi che sopravviveranno alla nostra specie in forme del futuro che vanno oltre la nostra limitata immaginazione.... 


[1] La Margulis mette in discussione, in questo brano, la teoria darwinista accentuando polemicamente la visione “gladiatoria” che secondo molti evoluzionisti sarebbe insita nel pensiero di Darwin e dei suoi seguaci. In realtà la “lotta per l’esistenza”, nell’accezione di Darwin e dei sostenitori della nuova sintesi non significa necessariamente lotta cruenta degli uni contro gli altri, ma è piuttosto una forma figurata: le piante del deserto “lottano”, ad esempio, per procurarsi l’acqua o i salmoni lottano per risalire la corrente.

[2] Con questo termine l’autrice raggruppa tutti gli organismi che non sono visibili ad occhio nudo, i Procarioti, non dotati di organuli e i Protisti, organismi unicellulari eucarioti, che possiedono cellule simili a quelle delle forme pluricellulari, dotate di organuli (mitocondri, reticolo endoplasmatico, nucleo ecc.). 

[3] I batteri possiedono un fattore genetico addizionale, consistente in una piccola molecola circolare di DNA che può rimanere libera nel citoplasma batterico o andarsi ad integrare nel suo cromosoma. Questo frammento relativamente autonomo di DNA batterico (plasmide) può riprodursi autonomamente all’interno della cellula o trasferirsi da una cellula all’altra. 

[4] Il patrimonio ereditario dei procarioti può ricombinarsi ampiamente proprio grazie alla presenza dei plasmidi, che passano da una cellula batterica all’altra; nei batteri, dunque, grazia a questo meccanismo il patrimonio ereditario si rinnova con una certa rapidità. Negli organismi eucarioti, invece, la ricombinazione genetica avviene solo grazie a fenomeni di ricombinazione che avvengono durante la formazione di cellule aploidi che per esempio negli animali danno origine alle cellule sessuate. Durante questo processo i cromosomi possono scambiarsi frammenti fra loro, ma questo tipo di rimpasto è molto più lento, in quanto, per divenire fonte di rinnovamento a livello degli individui, deve trasmettersi attraverso la riproduzione sessuata. Le mutazioni, cioè le modifiche del patrimonio ereditario dovute ad errori di trascrizione del DNA, sono eventi molto più rari. [Torna su]

[5] I batteri, infatti, sono in grado di accogliere o immettere frammenti di DNA provenienti da cellule Eucariote. 

[6]I mitocondri si trovano in tutte le cellule eucariote; in esse avvengono tutte quelle reazioni chimiche che permettono la respirazione cellulare, cioè la trasformazione dei composti organici prodotti dalle cellule (nelle piante ) o da esse assimilati (negli animali). 

[7] La simbiosi è quel fenomeno per cui due organismi mettono in comune le loro “capacità” con reciproci vantaggi: tutti conoscono il caso del paguro e dell’attinia, o quello dello squalo e dei "pesci pilota". 

[8] I “microtuboli” sono aggregazioni a forma di filamento di composti proteici, visibili al microscopio elettronico; esdsi costituiscono in tutti gli organismi eucarioti una sorta di impalcatura scheletrica che dà alla cellula la sua consistenza. I microtuboli, come dice il testo, possono anche originare strutture organizzate nei flagelli e nelle ciglia.


Abbiamo copiato questo testo dal sito: http://www.anisn.it

Da F. Capra

Le idee essenziali che sono alla base dei vari modelli di sistemi auto-organizzantisi descritti nelle pagine precedenti presero tutte forma nei primi anni Sessanta.

Negli Stati Uniti, Heinz von Foester costituì un proprio gruppo di ricerca interdisciplinare e tenne diverse conferenze sull’auto-organizzazione; in Belgio, Ilya Prigogine scoprì il legame cruciale fra sistemi lontano dall’equilibrio e non linearità; in Germania, Hermann Haken sviluppò la sua teoria non lineare del laser e Manfred Eigen lavorò sui cicli catalitici; e in Cile, Maturana si concentrò sul mistero dell’organizzazione dei sistemi viventi.

Contemporaneamente, il chimico dell’atmosfera James Lovelock ebbe un’intuizione illuminante che lo portò a formulare un modello che rappresenta forse l’espressione più sorprendente e più bella di auto-organizzazione: l’idea che il pianeta Terra nella sua interezza sia un sistema vivente auto-organizzantesi.

L’audace ipotesi di Lovelock ha le sue origini negli esordi del programma spaziale della NASA. Benché l’idea della terra come entità viva sia molto antica e benché nel corso dei secoli fossero state formulate molte teorie speculative sul pianeta come sistema vivente, furono i voli spaziali dei primi anni Sessanta a dare per la prima volta la possibilità all’uomo di osservare davvero il nostro pianeta dallo spazio e di percepirlo nella sua interezza. Questa visione della Terra in tutto il suo splendore – un globo azzurro e bianco sospeso nelle tenebre dello spazio – commosse profondamente gli astronauti e, come molti di loro hanno dichiarato, fu un’esperienza spirituale intensa che cambiò per sempre il loro rapporto con la Terra. Le splendide fotografie del globo terrestre che questi astronauti riportarono dai loro viaggi fornirono il più efficace dei simboli del movimento ecologico mondiale.

Mentre gli astronauti osservavano il pianeta e contemplavano la sua bellezza, anche l’ambiente della terra veniva studiato dallo spazio attraverso i sensori degli strumenti scientifici, così come l’ambiente lunare e quello dei pianeti vicini. Negli anni Sessanta, gli americani e i sovietici, lanciarono oltre cinquanta sonde spaziali destinate per lo più all’esplorazione della luna, ma alcune continuarono il loro viaggio verso Venere e Marte.

A quel tempo, la NASA invitò James Lovelock presso il Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California, perché contribuisse alla progettazione degli strumenti per scoprire eventuali forme di vita su Marte. La NASA progettava di mandare su Marte una navicella spaziale che avrebbe cercato forme di vita sul luogo dell’atterraggio attraverso una serie di esperimenti eseguiti sul suolo marziano. Mentre si occupava dei problemi tecnici della progettazione degli strumenti, Lovelock si pose una domanda più generale: come possiamo essere sicuri che le forme di vita di tipo marziano, se ne esistono, siano rilevabili attraverso gli esperimenti basati sul tipo di vita presente sulla Terra? Col passare dei mesi e degli anni, questa domanda lo portò a riflettere a fondo sulla natura della vita e sul modo in cui la si può individuare.

Lovelock si rese conto, meditando su questo problema, che il fatto che tutti gli organismi viventi assorbono energia e materia e liberano prodotti di scarto era la caratteristica più generale di vita che si potesse identificare. Proprio come Prigogine, egli pensava che fosse possibile esprimere matematicamente questa caratteristica fondamentale in termini di entropia, ma poi il suo ragionamento seguì un altra direzione.

Lovelock suppose che la vita su un qualsiasi pianeta avrebbe usato l’atmosfera e gli oceani come mezzi fluidi da cui trarre le materie prime e in cui disperdere i prodotti di scarto. Quindi, congetturò, ci dovrebbe essere la possibilità, in qualche modo, di rivelare l’esistenza della vita attraverso l’analisi dell’atmosfera di un pianeta. Così, se ci fosse vita su Marte, nell’atmosfera marziana dovrebbe apparire una particolare combinazione di gas, una “firma” caratteristica che sarebbe possibile scoprire anche dalla Terra.

Queste ipotesi furono confermate in modo spettacolare quando Lovelock e un collega, Dian Hitchcock, diedero inizio ad un’analisi sistematica dell’atmosfera marziana attraverso osservazioni compiute dalla Terra, e confrontarono i risultati con quelli di un’ analisi simile dell’atmosfera terrestre. Essi scoprirono che la composizione chimica delle due atmosfere era sorprendentemente diversa. Mentre nell’atmosfera marziana c’è pochissimo ossigeno, molta anidride carbonica (CO2) e non c’è metano, l’atmosfera terrestre contiene imponenti quantità di ossigeno, quantità irrisorie di CO2 e molto metano.

Lovelock si rese conto che la ragione di quella particolare configurazione atmosferica su Marte è che su un pianeta privo di vita, tutte le possibili reazioni chimiche fra i gas dell’atmosfera erano state completate da molto tempo. Oggi, su Marte non sono più possibili altre reazioni chimiche; nell’atmosfera marziana c’è un equilibrio chimo completo.

La situazione terrestre è esattamente opposta. L’atmosfera terrestre contiene gas quali l’ossigeno e il metano, che hanno una grande probabilità di reagire fra di loro ma che tuttavia coesistono in grandi proporzioni, dando luogo ad una miscela di gas lontana dall’equilibrio termico. Lovelock concluse che questa condizione particolare deve essere causata dalla presenza della vita sulla Terra. Le piante producono costantemente ossigeno, e altri organismi producono altri gas, cosicché c’è un continuo rifornimento dei gas atmosferici che subiscono reazioni chimiche.

In altre parole, Lovelock identificò nell’atmosfera terrestre un sistema aperto, lontano dall’equilibrio, caratterizzato da un flusso costante di energia e materia. La sua analisi chimica gli permise di identificare il marchio distintivo della vita.

Questa intuizione fu così importante per Lovelock che egli ricorda ancora il momento esatto in cui l’ebbe:

Personalmente, la rivelazione di Gaia mi giunse all’improvviso, come un’illuminazione fulminea. Ero in un piccolo locale all’ultimo piano del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California. Era l’autunno del 1965,…e discutevo con un collega, Dian Hitchcock, di un documento che stavamo preparando… fu in quel momento che intravidi Gaia. Mi venne un pensiero sconcertante. L’atmosfera della terra era una miscela di gas straordinaria e instabile, eppure sapevo che la sua composizione rimaneva costante per periodi di tempo assai lunghi. Era possibile che la vita sulla Terra non solo creasse l’atmosfera, ma che la regolasse, mantenendone la composizione costante e a un livello favorevole alla vita degli organismi?

Il processo di autoregolazione è il cardine dell’ipotesi di Lovelock. Egli sapeva che il calore del sole è aumentato del 25% da quando è comparsa la vita sulla Terra e che, a dispetto di questo aumento, la temperatura sulla terra è rimasta costante, a un livello adatto alla vita, per quattro miliardi di anni. E se la Terra fosse in grado di regolare la propria temperatura, si chiese, e le altre condizioni del pianeta – la composizione dell’atmosfera, la salinità del mare eccetera – proprio come certi organismi viventi sono in grado di autoregolare e mantenere costanti la temperatura corporea e le altre variabili? Lovelock capì che quest’ipotesi equivaleva ad una frattura radicale con la scienza convenzionale:

Bisogna intendere la teoria di Gaia come un’alternativa al sapere convenzionale che considera la Terra un pianeta morto fatto di rocce, oceani e atmosfera inanimati, e semplicemente abitato dalla vita. Bisogna considerare la Terra come un vero e proprio sistema, che comprende tutta quanta la vita e tutto quanto il suo ambiente strettamente accoppiati così da formare un’entità che si autoregola.

Agli scienziati spaziali della NASA, per inciso, la scoperta di Lovelock non piacque affatto. Per la missione Viking su Marte avevano predisposto un impressionante apparato di esperimenti atti alla rivelazione della vita, e adesso Lovelock stava dicendo loro che non c’era proprio nessuna necessità di mandare una navicella sul pianeta rosso in cerca della vita. Tutto ciò di cui avevano bisogno era un’analisi dell’atmosfera marziana, che si poteva eseguire facilmente dalla Terra per mezzo di un telescopio. Non sorprende che alla NASA non tennero conto dei consigli di Lovelock e che continuarono lo sviluppo del programma Viking. La loro navicella spaziale atterrò su Marte molti anni dopo e, come Lovelock aveva predetto, non trovò tracce di vita.

Nel 1969 Lovelock presentò per la prima volta la sua ipotesi della Terra come sistema che si autoregola a un congresso scientifico a Princeton. Poco tempo dopo, un amico romanziere, riconoscendo nell’idea di Lovelock la rinascita di un mito antico e potente, suggerì il nome di “ipotesi di Gaia” in onore della dea greca della Terra. Lovelock accettò volentieri il suo consiglio e nel 1972 pubblicò la prima ampia visione della sua idea in un articolo intitolato “Gaia as seen through the atmosphere”.

A quel tempo, Lovelock non aveva idea di come la Terra potesse regolare la propria temperatura la composizione dell’atmosfera, ma sapeva soltanto che i processi di autoregolazione dovevano riguardare organismi presenti nella biosfera. Egli non sapeva nemmeno quali organismi producessero i gas, e quali fossero questi gas. Nello stesso periodo, tuttavia, la microbiologa americana Lynn Margulis stava studiando proprio quei processi che Lovelock aveva bisogno di comprendere: la produzione e l’eliminazione di gas da parte di vari organismi, soprattutto da parte delle miriadi di batteri presenti nel suolo terrestre. Margulis ricorda che cominciò a chiedersi: “perché tutti concordano sul fatto che l’ossigeno dell’atmosfera… proviene dalla vita, ma nessuno parla degli altri gas atmosferici che provengono dalla vita?”.

Ben preso molti colleghi le suggerirono di parlarne con James Lovelock, e ciò condusse a una collaborazione lunga e fruttuosa da cui scaturì l’ipotesi scientifica di Gaia nella sua completezza.

James Lovelock e Lynn Margulis scoprirono che le loro esperienze scientifiche e le loro aree di competenza costituivano una combinazione perfetta. Margulis non aveva alcun problema a rispondere alle tante domande di Lovelock sulle origini biologiche dei gas atmosferici, mentre Lovelock contribuì alla nascita della teoria di Gaia con i concetti propri della chimica, della termodinamica e della cibernetica. In tal modo i due scienziati furono in grado di identificare gradualmente una rete complessa di anelli di retroazione che – ipotizzarono – conducevano all’autoregolazione del sistema planetario.

La caratteristica notevole di questi anelli di retroazione è che essi collegano sistemi viventi e non viventi. Non possiamo più pensare alle rocce, agli animali e alle piante come se fossero entità separate. La teoria di Gaia dimostra che c’è una stretta concatenazione fra le parti viventi del pianeta – piante, microrganismi e animali – e le sue parti non viventi – rocce, oceani e atmosfera.

Il ciclo dell’anidride carbonica illustra bene questo punto. Da milioni di anni i vulcani terrestri espellono quantità enormi di anidride carbonica (CO2). Dato che il CO2 è uno dei gas che più contribuiscono all’effetto serra, Gaia ha la necessità di eliminarlo dall’atmosfera, altrimenti la sua temperatura diverrebbe troppo alta e la vita si estinguerebbe. Piante e animali riciclano imponenti quantità di CO2 e di ossigeno nei processi di fotosintesi, respirazione e putrefazione. Eppure, questi scambi si bilanciano sempre e non hanno alcun effetto sul livello di CO2 nell’atmosfera. Secondo la teoria di Gaia, l’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera, viene eliminato attraverso un immenso anello di retroazione in cui la degradazione meteorica costituisce un anello fondamentale.

Nel processo di degradazione meteorica, le rocce della crosta terrestre si combinano con l’acqua piovana e l’anidride carbonica per formare vari composti chimici chiamati carbonati. In tal modo il CO2 viene sottratto all’atmosfera e trattenuto in soluzioni liquide. Questi processi sono puramente chimici e non richiedono la partecipazione di organismi viventi. Tuttavia, Lovelock e altri scienziati scoprirono che la presenza di batteri nel suolo accresce enormemente la rapidità del processo di degradazione meteorica. In un certo senso, i batteri presenti nel suolo agiscono come catalizzatori nel processo di degradazione meteorica, e l’intero ciclo dell’anidride carbonica può essere considerato l’equivalente biologico dei cicli catalitici studiati da Manfred Eigen.

In seguito i carbonati si disperdono nell’oceano dove minuscole alghe, invisibili a occhio nudo, li assorbono e li usano per costruire elaborati gusci di gesso (carbonato di calcio). Così il CO2 che era nell’atmosfera ora è finito nei gusci di queste minuscole alghe. Inoltre, le alghe oceaniche assorbono altra anidride carbonica direttamente dall’aria.

Quando le alghe muoiono, i loro gusci si depositano sul fondo dell’oceano dove formano estesi sedimenti di calcare (un’altra forma del carbonato di calcio). A causa del loro enorme peso, i sedimenti di calcare affondano lentamente nel mantello terrestre e si sciolgono, e possono perfino innescare il movimento delle zolle tettoniche. Infine, una parte del CO2 contenuto nelle rocce fuse viene di nuovo espulso dai vulcani e dà inizio a un nuovo nel grande ciclo gaiano.

L’intero ciclo, che collega i vulcani alla degradazione meteorica, ai batteri del suolo, alle alghe oceaniche, ai sedimenti di calcare e di nuovo ai vulcani – agisce come un gigantesco anello di retroazione, che contribuisce alla regolazione della temperatura della Terra. Quando il riscaldamento solare aumenta, viene stimolata l’azione dei batteri nel suolo, il che accresce la rapidità del processo di degradazione meteorica. A sua volta, questo processo elimina maggiori quantità di CO2 dall’atmosfera e quindi raffredda il pianeta. Secondo Lovelock e Margulis, cicli di retroazione simili – che legano fra di loro vegetali e rocce, animali e gas atmosferici, microrganismi e oceani, regolano il clima della Terra, la salinità dei suoi oceani e altre importanti condizioni planetarie.

La teoria di Gaia studia la vita da un punto di vita sistemico, riunendo nozioni di geologia, microbiologia, chimica dell’atmosfera e altre discipline su cui i rispettivi esperti non sono abituati a scambiarsi informazioni. Lovelock e Margulis sfidarono la visione convenzionale secondo cui queste discipline sono separate, le forze geologiche hanno stabilito le condizioni per la vita sulla Terra, e le piante e gli animali sono stati semplicemente degli ospiti passeggeri che per caso hanno trovato proprio le condizioni giuste per la loro evoluzione. Secondo la teoria di Gaia, la vita crea le condizioni della sua stessa esistenza. Scrive Lynn Margulis:

Detto in modo semplice, l’ipotesi [di Gaia] afferma che la superficie della Terra, che abbiamo sempre considerato come “l’ambiente” della vita, fa realmente “parte” della vita. L’involucro d’aria – la troposfera – dovrebbe essere considerato un sistema circolatorio prodotto e sostenuto dalla vita… Quando gli scienziati ci dicono che la vita si adatta ad un ambiente essenzialmente passivo, fatto di chimica, fisica e rocce, perpetuano una visione gravemente distorta. In realtà la vita realizza, forma e modifica l’ambiente a cui si adatta. Allora, quell’ “ambiente” agisce a sua volta sulla vita che sta cambiando e agendo e crescendo in esso. Ci sono dunque delle iterazioni cicliche costanti.

Da principio, la resistenza della comunità scientifica a questa nuova visione della vita fu così forte che gli autori non poterono pubblicare la loro ipotesi. Le riviste accademiche più affermate, come Science e Nature, respinsero i loro articoli.

Alla fine, l’astronomo Carl Sagan, che era direttore della rivista Icarus, invitò Lovelock e Margulis a pubblicare l’ipotesi di Gaia sulla sua rivista. E’ interessante notare che di tutte le teorie e i modelli di auto-organizzazione, l’ipotesi di Gaia fu quella che incontrò le resistenze di gran lunga più forti. Si è tentati di credere che questa reazione del tutto irrazionale dell’ establishment scientifico sia stata scatenata dall’evocazione di Gaia, mito e archetipo potente.

Di fatto, l’immagine di Gaia come essere senziente fu la principale ragione implicita nel rifiuto dell’ipotesi di Gaia dopo la sua pubblicazione. Gli scienziati espressero questo rifiuto sostenendo che l’ipotesi non era scientifica perché era teleologica, cioè sottintendeva l’idea che i processi naturali fossero diretti da un’intenzione.

“Né Lynn Margulis né io abbiamo mai sostenuto che l’autoregolazione planetaria sia intenzionale” protestava Lovelock. “Eppure ci siamo trovati di fronte ad una critica persistente, quasi dogmatica, secondo cui la nostra ipotesi è teleologica”.

Questa critica riprende il vecchio dibattito fra meccanicisti e vitalisti. Mentre i meccanicisti sostengono che tutti i fenomeni biologici alla fine saranno spiegati per mezzo delle leggi della chimica e della fisica, i vitalisti postulano l’esistenza di un’entità non fisica, un agente causale che dirige quei processi della vita che sfidano le spiegazioni meccanicistiche. La teleologia – dal greco telos (“intento”), asserisce che l’agente causale postulato dal vitalismo è intenzionale, che nella natura c’è un intento, un progetto. I meccanicisti, opponendosi agli argomenti vitalistici e teleologici, non riescono ad aggirare lo scoglio della metafora newtoniana che paragona dio a un grande orologiaio. Grazie alla teoria dei sistemi viventi che sta sorgendo attualmente, il dibattito fra meccanicismo e teleologia è stato finalmente superato. Come vedremo, questa teoria considera la natura vivente come un’entità conscia e intelligente senza il bisogno di presupporre l’esistenza di un qualche progetto o intenzione globale.

I rappresentanti della biologia meccanicistica attaccarono l’ipotesi di Gaia in quanto teleologica, poiché non riuscivano a immaginare come la vita sulla Terra potesse creare e regolare le condizioni per la sua stessa esistenza senza che fosse cosciente e dotata di intenzionalità. 

“Ci sono riunioni di comitato delle specie per negoziare la temperatura dell’anno successivo?” chiedevano questi critici con un umorismo malevolo.

Lovelock rispose con un ingegnoso modello matematico, che chiamò “Daisyworld” (mondo delle margherite). Rappresentava un sistema gaiano enormemente semplificato, in cui risulta assolutamente chiaro che la regolazione della temperatura è una proprietà emergente del sistema che nasce in modo automatico, senza l’intervento di alcuna azione intenzionale, come conseguenza di anelli di retroazione fra gli organismi del pianeta e il loro ambiente.

Daisyworld è un modello di pianeta realizzato al computer, scaldato da un sole la cui radiazione termica aumenta costantemente e in cui crescono solo due specie di vegetali: margherite nere e margherite bianche. I semi di queste margherite sono sparsi su tutta la superficie del pianeta che è umida e fertile ovunque, ma le margherite possono crescere solo entro certi limiti di temperatura.

Lovelock inserì nel suo computer le equazioni matematiche corrispondenti a tutte queste condizioni, stabilì che la temperatura iniziale del pianeta fosse al punto di congelamento e fece partire il modello sul computer. L’evoluzione dell’ecosistema di Daisyworld avrebbe portato a un’autoregolazione del clima? Era questa la domanda cruciale che egli si poneva.

I risultati furono spettacolari. Poiché il pianeta si riscalda, ad un certo punto l’equatore diventa abbastanza caldo per la comparsa della vita vegetale. Le margherite nere compaiono per prime poiché assorbono meglio il calore rispetto alle margherite bianche e sono quindi più adatte alla sopravvivenza e alla riproduzione. Così, nella prima fase della sua evoluzione, Daisyworld mostra un anello di margherite nere sparse attorno all’equatore.

Quando il pianeta si riscalda ulteriormente, l’equatore diventa troppo caldo per la sopravvivenza delle margherite nere, che cominciano a colonizzare le zone subtropicali. Nello stesso tempo, attorno all’equatore compaiono le margherite bianche. Dato che sono bianche, riflettono calore e diminuiscono la propria temperatura, il che permette loro di sopravvivere nelle zone più calde meglio delle margherite nere. Nella seconda fase, dunque, c’è un anello di margherite bianche attorno all’equatore, e le zone subtropicali e temperate si riempiono di margherite nere, mentre attorno ai poli fa ancora troppo freddo perché crescano margherite.

Poi il sole diviene ancora più caldo e la vita vegetale si estingue all’equatore, dove ora la temperatura è troppo elevata anche per le margherite bianche. Nel frattempo, le margherite bianche hanno iniziato a prendere il posto di quelle nere nelle zone temperate, e le margherite nere stanno cominciando a comparire attorno ai poli.

Così nella terza fase il pianeta mostra l’equatore spoglio, le zone temperate popolate di margherite bianche e le zone circumpolari piene di margherite nere, con le sole calotte polari prive di vita vegetale. Nell’ultima fase, infine, regioni estese attorno all’equatore e nelle zone subtropicali sono ormai troppo calde perché le margherite sopravvivano, mentre ci sono margherite bianche nelle zone temperate e margherite nere ai poli. Dopodichè, sul modello di pianeta la temperatura diventa troppo alta perché crescano margherite e la vita su Daisyworld si estingue.

Queste sono le dinamiche di base del sistema di Daisyworld. La proprietà fondamentale del modello che causa l’autoregolazione consiste nel fatto che le margherite nere, assorbendo calore, non scaldano solo se stesse, ma anche il pianeta. Analogamente, mentre le margherite bianche riflettono il calore e raffreddano se stesse, raffreddano anche il pianeta. Quindi il calore viene assorbito e riflesso durante tutta l’evoluzione di Daisyworld, a seconda delle specie di margherite che vi crescono.

Quando Lovelock tracciò un grafico che rappresentava i cambiamenti di temperatura sul pianeta durante la sua evoluzione, ottenne un risultato sorprendente: la temperatura del pianeta rimane costante per tutte le quattro fasi. Quando il sole è relativamente freddo, Daisyworld aumenta la sua temperatura per mezzo dell’assorbimento di calore da parte delle margherite nere; quando aumenta il calore solare, la temperatura viene abbassata gradualmente a causa del progressivo predominio delle margherite bianche che riflettono il calore. Così, daisyworld, senza alcuna prescienza o pianificazione, “regola la propria temperatura per un ampio periodo di tempo attraverso la danza delle margherite”.

Gli anelli di retroazione che collegano gli influssi ambientali alla crescita delle margherite , che a loro volta influenzano l’ambiente, sono una caratteristica fondamentale di Daisyworld. Quando il ciclo viene interrotto, in modo che le margherite non abbiano più alcuna influenza sull’ambiente, la popolazione delle margherite fluttua in maniera incontrollata e l’intero sistema diventa caotico. Ma non appena gli anelli vengono chiusi ricollegando le margherite all’ambiente, il modello si stabilizza ed entra in gioco il meccanismo dell’autoregolazione.

Da allora, Lovelock ha progettato versioni molto più sofisticate di Daisyworld. Invece di due, nei nuovi modelli sono previste molte specie di margherite con pigmenti variabili; in alcuni modelli le margherite si evolvono e cambiano colore; in altri ci sono conigli che mangiano le margherite e così via. Il risultato finale di questi modelli di elevata complessità è che le piccole oscillazioni di temperatura presenti nel modello originale di Daisyworld si smorzano e il meccanismo di autoregolazione diventa sempre più stabile man mano che cresce la complessità del modello.

Lovelock inserì eventi catastrofici che eliminavano il 30% delle margherite a intervalli regolari. Scoprì che l’autoregolazione di Daisyworld risponde con notevole elasticità a queste gravi alterazioni.

Tutti questi modelli generarono vivaci discussioni fra biologi, geofisici e geochimica, e dal momento in cui furono pubblicati per la prima volta l’ipotesi Gaia ha ottenuto un rispetto molto maggiore nella comunità scientifica. Oggi, in effetti, diversi gruppi di ricerca in varie parti del mondo lavorano su formulazioni dettagliate della teoria di Gaia

Da G. Barbiero

 

STRUMENTI RAZIONALI PER UNO STUDIO GLOBALE DELLA SOSTENIBILITA'

L’assunto centrale della Teoria di Gaia è che il pianeta sia un organismo vivente. Un organismo sui generis ovviamente, con proprie regole ed una propria fisiologia. Ed è la fisiologia di Gaia - un organismo grande quanto la superficie del pianeta - che interessa gli studiosi di geofisiologia.

Sappiamo che Gaia è oggi un organismo sofferente perché una delle gilde biochimiche che la abitano - quella che, con assai poca modestia, si autodefinisce sapiens - da qualche tempo è diventata piuttosto invadente. 

Un gilda egocentrica che si appropria del 41% della produzione primaria netta. Una gilda irresponsabile che ha messo in piedi un’economia iniqua che riduce la biodiversità. Una gilda irriconoscente che non potrebbe digerire nemmeno una caramella senza il soccorso dei batteri che vivono nell’intestino dei suoi membri.

Una gilda che riduce sempre più i margini di sostenibilità, ma la sostenibilità è un concetto che riguarda noi ovviamente. Perché superati certi limiti - sui quali, allo stato attuale delle informazioni, possiamo solo congetturare - Gaia sicuramente farà giustizia delle nostre pretese e, come è già successo per altre specie, potrebbe anche arrivare al punto di liberarsi di noi. 

Non siamo infatti la prima specie che cerca di forzare gli equilibri e di violare le regole e Gaia ha sempre reagito correggendo l’assetto del sistema, spesso trovando nuove e inedite forme di convivenza tra le specie, sacrificando quelle meno adatte. La sfida quindi, per noi, è di conoscere e di conformare a queste regole i nostri programmi di sviluppo sostenibile.

Due parole sulla metafora di Gaia
La Teoria di Gaia è una teoria scientifica che, nella formulazione sintetica proposta dal padre della teoria, James Lovelock, “considera l’evoluzione dei biota e del loro ambiente materiale come un unico processo strettamente accoppiato, dove l’autoregolazione del clima e della chimica dell’atmosfera, dell’oceano e del suolo sono le principali proprietà emergenti”. E’ una teoria alla cui elaborazione hanno contribuito un gran numero di discipline scientifiche e che consente una visione globale della vita sulla Terra. E’ una teoria che rappresenta quindi l’ideale punto di osservazione per studiare i margini di sostenibilità dell’economia umana in relazione alle risorse del pianeta. 

Gaia è ovviamente una metafora che fa leva su un sentimento diffuso e profondo: l’idea che la Terra sia una sorta di grembo per la vita. Gaia infatti è il nome della dea-madre della cosmogonia greca. E’ la Mater Tellus dei romani, la Hel della mitologia norvegese. E’ una dea madre che ad ogni ciclo stagionale si rinnova (è sempre vergine) e conosce i misteri della vita e della morte: è dea della sapienza. 

Nel corso dei secoli la dea tende ad articolarsi in figure femminili più differenziate, ciascuna delle quali conserva un attributo della dea originaria. Ecco allora che i greci elaborano il mito di Core-Demetra e quello di Metis, i celti quello di Eire-Fodhla-Banhba ed anche il mondo cristiano assume questa struttura trinitaria della dea incarnandola nella figura storica di Myriam di Nazareth, che nella teologia mistica diventa la Theotòkos, la Vergine-Madre e la Sofia. 

L’universalità e l’antichità del mito forse può spiegare perché Gaia susciti tanto interesse nella psicologia analitica di stampo junghiano. Gaia è un archetipo, è la dea descritta da Shinoda Bolen, da Glazebrock, da Pinkola Estes. Gaia, in generale, si presta molto bene alla narrazione e posso raccontare di lei ai miei bambini.

Tutto ciò non piace molto al mondo accademico ortodosso, dove si preferisce coniare nomi più scientifically correct come Geofisiologia o Scienze del Sistema Terra. Tuttavia sono intimamente convinto che una correzione di rotta del nostro modello di sviluppo sarà più facile se le cognizioni scientifiche che andiamo via via acquisendo si assoceranno ad una visione emotivamente coinvolgente della natura. 

Provando a coniugare razionalità ed emozione posso così immergermi nello studio dei cicli e delle età di Gaia e contemporaneamente godermi la magnificenza e la gloriosa manifestazione della sua bellezza. Gaia ha il raro potere di trasmettermi una profonda emozione scientifica. Quella che vado a raccontarvi è quindi anche la mia particolare storia d’amore con la dea.

I concetti strutturanti la Teoria di Gaia
Possiamo cominciare la nostra indagine sui concetti strutturanti la Teoria di Gaia con una prima semplice osservazione fatta dal geofisiologo Westbroeck: la vita è una forza geologica. E’ un osservazione talmente fuori discussione che è persino banale ripeterla. Ma talvolta proprio ciò che è più evidente rischia di essere sottovalutato. 

Ad esempio, sappiamo che al 98% l’atmosfera terrestre è costituita da azoto e ossigeno molecolari. Che l’ossigeno sia il prodotto di scarto della fotosintesi lo sanno anche i bambini, ma che l’azoto atmosferico sia in prevalenza il prodotto di scarto di micro-organismi denitrificatori è un po’ meno risaputo. 

E ancor meno diffusa è la consapevolezza che l’azione degli organismi denitrificatori è bilanciata dagli organismi azoto-fissatori, che rappresentano una delle chiavi di volta su cui si regge tutta la vita su questo pianeta. Il 95% degli atomi d’azoto incorporati nelle basi azotate del DNA o negli aminoacidi delle proteine di qualsiasi organismo (animali, piante, funghi, ecc.) è stata organicata da un membro di questa gilda biochimica. Meritano un atto di riconoscenza prima di procedere oltre.

Cicli, serbatoi e pozzi
Abbiamo accennato al fatto che gli organismi denitrificatori agiscono in coppia con gli organismi azoto-fissatori costituendo un ciclo chiuso. Allo stesso modo gli organismi respiratori e quelli fotosintetizzatori costituiscono un ciclo chiuso rispetto all’ossigeno. Tutti gli elementi chimici che entrano nella grande giostra della biosfera sono inseriti in cicli chiusi. Il ciclo è il modo di operare di Gaia.

Questo non vuol dire che gli elementi siano tutti contemporaneamente in circolo. Vuol dire solo che sui tempi lunghi di Gaia (eoni) tutti gli elementi fondamentali entrano in gioco, anche se, sulle scale temporali a noi più consone, appaiono parcheggiati in quelli che i geofisiologi chiamano pozzi (dove gli elementi si trovano in forme chimiche stabili non utilizzabili dalla biosfera), ma che al mutare delle circostanze possono trasformarsi in serbatoi, quando una gilda biochimica trova il modo di utilizzare un certo elemento nella forma in cui si trova nel pozzo. 

Pozzi e serbatoi funzionano quindi come una sorta di conto corrente bancario, dove si deposita o si preleva alla bisogna. E qui possiamo registrare una prima fondamentale differenza tra gli organismi viventi e Gaia: i primi sono sistemi aperti attraversati da flussi di energia e di materia. Gaia è invece un sistema virtualmente chiuso, che riceve energia (principalmente da Elio, il sole), ma i cui scambi di materia con lo spazio sopra e sotto di lei sono praticamente irrilevanti. Questa differenza obbliga Gaia a riciclare tutto e a favorire l’evoluzione di organismi capaci di andare in questa direzione...

Per ora ci fermiamo qui, ma abbiamo appena cominciato a scalfire la grande complessità e le infinite possibilità di questa teoria. La prossima settimana scopriremo come la comparsa dell’ossigeno sul nostro pianeta abbia provocato un tremendo disastro ecologico... 

GLI ANELLI DI RETROAZIONE NEGATIVA (OMEOSTASI) E POSITIVA (OMEORRESI)

I cicli degli elementi di Gaia, visti nel loro dettaglio, sono estremamente complessi, perché in ciascun ciclo sono coinvolte un gran numero di operazioni catalitiche ognuna delle quali a monte risponde alla Legge del Minimo di Liebig e a valle porta con sé conseguenze che investono la funzione catalitica stessa in quello che gli studiosi chiamano anello di retroazione (feedback). Questi vincoli - Legge del Minimo e feedback - consentono agli organismi viventi di reagire alle sollecitazioni dell’ambiente esterno cercando di mantenere stabile nel tempo l’ambiente interno. 

Per fare un esempio semplice, sappiamo che i vertebrati a sangue caldo investono una grande quantità di energia per mantenere la temperatura interna entro un ristrettissimo delta (nell’uomo 36, +/-0,5), anche quando la temperatura esterna è molto alta o molto bassa. In questo senso si parla di sistema omeostatico, un sistema cioè dove le parti instaurano e mantengono un equilibrio fra loro che garantisce stabilità all’intero. Un sistema biologico omeostatico si regge su anelli di retroazione negativa, dove il prodotto di una reazione inibisce l’ulteriore sviluppo della reazione stessa o di una ad essa collegata.

Quando invece siamo in presenza di un anello di retroazione positivo, quando cioè il prodotto della reazione amplifica anziché inibire la sequenza di reazioni, si innesca un processo a cascata. Il processo a cascata per sua natura tende a modificare gli equilibri consolidati in maniera irreversibile e il sistema diventa instabile fino a quando non raggiunge un nuovo punto di equilibrio. 

La storia di Gaia è costellata di episodi che hanno sconvolto periodi di relativa stabilità, tanto che i punti di rottura sono utilizzati dagli studiosi per dividere la storia della Terra in ere geologiche. Dal Proterozoico in avanti, di moltissimi di questi punti di rottura ne sono protagonisti le diverse forme di vita che hanno abitato il pianeta. 

Un esempio su tutti: il disastro ecologico dell’ossigeno avvenuto 2 miliardi di anni fa provocato dalla gilda dei fotosintetizzatori. Quando gli antenati degli attuali cianobatteri inventarono la fotosintesi clorofilliana e cominciarono a costruire molecole di zucchero a partire da anidride carbonica e acqua, non solo contribuirono a modificare il clima del pianeta raffreddandolo, ma cominciarono a liberare nell’atmosfera un potente inquinante come l’ossigeno molecolare che si rivelò micidiale per la vita sulla Terra. 

Per qualche tempo Gaia riuscì ad assorbire l’ossigeno soprattutto per mezzo dei minerali facilmente ossidabili contenuti nelle rocce, ma una volta saturati questi depositi, l’ossigeno libero nell’atmosfera fece strage della pellicola di organismi anaerobi che avvolgeva la Terra. 

Dopo questo disastro ecologico, l’atmosfera terrestre non fu mai più favorevole alla vita degli organismi anaerobi, Gaia raggiunse un nuovo equilibrio, e noi possiamo essere grati a questi “inquinatori” selvaggi perché senza ossigeno libero nell’atmosfera non si sarebbe potuto evolvere la cellula eucariote, il mattone fondamentale dei Metazoi.

Per ora è tutto. Ma tornate a trovarci! Nella prossima puntata esploreremo “l’organizzazione politica” di Gaia, scoprendo che essa non è altro che un’olarchia.

UN PIANETA OLARCHICO

Un altro concetto fondamentale della Teoria di Gaia è quello di considerare la vita sulla Terra come un’olarchia. Un’olarchia è un’organizzazione costituita da sistemi completi fra loro integrati che fungono da parti in un sistema completo di ordine superiore. 

Gaia è costituita da bioma, che a loro volta si articolano in ecosistemi, che sono costituiti da batteri, prototisti e metazoi, questi ultimi sono a loro volta costituiti da cellule, che sono sistemi costituiti da molecole, e così via. 

Ogni sistema completo si articola in parti che sono a loro volta sistemi completi. Visti dall’altro capo della sequenza, ciascun intero diventa parte di un sistema di livello successivo. Non si può saltare un gradino: gli atomi per diventare cellule devono organizzarsi in molecole, le molecole per diventare organismi viventi devono organizzarsi in cellule e così via. 

A ciascun livello dell’olarchia compaiono proprietà emergenti, caratteristiche proprie del sistema in quel determinato piano. Le proprietà emergenti di un sistema non sono prevedibili a priori. Forse un giorno lo saranno, ma oggi non esiste alcuna teoria in grado di prevedere - che so - le qualità della molecola di clorofilla a partire dalla sua formula bruta. 

L’organizzazione che assumono gli atomi di carbonio, di idrogeno, di ossigeno, di azoto, di magnesio nella molecola di clorofilla sono già inscritte nella struttura sub-atomica di questi elementi, ma la clorofilla è solo una delle possibili combinazioni molecolari che questi elementi possono assumere insieme. La clorofilla è semplicemente - ed è questa la sua proprietà emergente - la configurazione molecolare che si è rivelata più efficace nell’incanalare l’energia solare nella fotosintesi.

L’imprevedibilità delle configurazioni che le parti possono assumere nell’organizzazione di strutture di livello successivo è alla base della biodiversità. E’ piuttosto chiaro che le caratteristiche proprie di ciascuna parte che va a comporre il nuovo intero ne influenzerà l’organizzazione. 

Se consideriamo ad esempio l’attività e il ruolo che i sopraccitati organismi azoto-fissatori hanno per Gaia ci rendiamo ben conto di come questa gilda biochimica influenzi l’intera biosfera. Quando una parte influenza o vincola l’organizzazione dell’intero si parla di influenza verso l’esterno. 

Meno immediatamente evidenti sono invece i casi in cui è l’intero che influenza le parti di cui è costituito. Si parla allora di influenza verso l’interno. L’intero in questi casi funge da matrice per lo sviluppo di cose nuove, orientando, con la propria organizzazione contingente, il corso dell’evoluzione. 

IL METABOLISMO DEL PIANETA TERRA

L’approccio epistemologico della geofisiologia è, per sua natura, di tipo funzionalistico. In filosofia si parlerebbe di approccio fenomenologico, per cui gli strumenti analitici, la metodologia e l’impianto sperimentale sono orientati al come funziona. La Teoria di Gaia ha portato da questo punto di vista ad una riconsiderazione globale dei confini propri della biosfera e della classificazione degli organismi. 

Cominciamo con i confini. Se non disponessimo della pelle come confine potremmo lo stesso riconoscerci come organismi viventi considerando alcuni parametri funzionali quali i tassi di ricircolo. Potremmo ad esempio considerare il flusso del filtrato dei glomeruli renali (200 litri/giorno) rapportandolo all’attività dell’emuntore (2-3 litri/giorno) e scoprire che il tasso di ricircolo che caratterizza in via funzionale il nostro sistema renale è di 100 (200/2). 

Qualcosa di analogo lo possiamo fare con i cicli degli elementi che sono la base del metabolismo di Gaia. E’ possibile definire il tasso di ricircolo di un elemento come il rapporto tra il flusso che passa attraverso la fotosintesi e la quota che esce dal ciclo. Ad esempio il carbonio viene organicato nella biomassa attraverso la fotosintesi in ragione di 100 miliardi di tonnellate l’anno. Una parte di questo flusso (0,5 miliardi di tonnellate l’anno) finisce seppellito in pozzi, virtualmente perduto per i tempi brevi dei cicli della vita. (In realtà nel corso delle decine di milioni di anni gli elementi seppelliti sono riciclati dall’attività vulcanica, che è una sorta di rumine per Gaia). 

Il tasso di ricircolo del carbonio è quindi pari a 200 (100/0,5): questo vuol dire che mediamente un atomo di carbonio viene scambiato fra un organismo e l’altro 200 volte prima di uscire dal ciclo. Un bell’esempio di riciclaggio! Ma Gaia fa ancora meglio con l’azoto dove il tasso di ricircolo è di 571. In altri casi invece, come nel caso del fosforo (Figura 2) o del calcio (Figura 3), il riciclaggio è meno sistematico, considerata la relativa abbondanza di questi elementi. Il tasso di ricircolo consente quindi di valutare l’importanza relativa di determinato elemento: è tanto più elevato quanto più risulta importante l’elemento nell’economia di Gaia. 

Le possibilità di scambio di materia fra Gaia e le sue matrici (il suolo, l’aria e l’oceano) sono infatti strette da vincoli e lo sono ancor più quelle fra Gaia e lo spazio esterno e Gaia e l’interno della Terra. Dal punto di vista di Gaia l’atomo di carbonio di una molecola di CaCO3 posto 5 millimetri sotto la superficie di una roccia è molto più lontano del lichene che vi si posa sopra dell’atomo di carbonio di una molecola di HCO3- dell’oceano.
Un altro concetto molto importante in geofiosiologia è quello di gilda biochimica, con la quale si definisce un gruppo di organismi che svolgono la stessa funzione biochimica nel metabolismo di Gaia. Quando ad esempio si parla di gilda dei fotosintetizzatori, si suole indicare tutti gli organismi che hanno in comune l’attività fotosintetica, mettendo quindi insieme anche organismi molto diversi fra loro come i microscopici cianobatteri e le gigantesche sequoie. La gilda biochimica è uno strumento d’analisi tassonomico che si è rivelato enormemente più pratico, per la valutazione quantitativa dei flussi degli elementi che caratterizzano i cicli biogeochimici, della tradizionale tassonomia linneiana basata sulle similitudini genetiche (parentele) fra le specie.

L'UOMO COME PARASSITA DEL MONDO

Lynn Margulis è stata forse la prima grande scienziata a comprendere le potenzialità della Teoria di Gaia. La Margulis fu contattata sul finire degli anni sessanta da Lovelock il quale conosceva di fama la geniale microbiologa.

Lovelock stava riflettendo su quella che sarebbe diventata l’Ipotesi Gaia, quando si trovò di fronte ad un enigma per lui insolubile: la presenza di metano nell’atmosfera. Il metano è una molecola che, data la composizione chimica della nostra atmosfera, non dovrebbe esistere.

Lovelock pensò che se il metano continuava comunque ad essere presente nell’atmosfera terrestre se ne poteva dedurre l’esistenza di un microrganismo che provvedeva a liberare continuamente metano nell’atmosfera. Lovelock quindi consultò la Margulis la quale gli diede la risposta che cercava, risposta che costituì il primo passo della collaborazione tra due che considero fra i più grandi scienziati della seconda metà del XX secolo. 

La Margulis aveva appena avanzato una teoria assolutamente eterodossa per spiegare l’evoluzione dei microrganismi, teoria che con il tempo si rivelerà sempre più convincente. In estrema sintesi possiamo dire che per la Margulis i grandi passaggi evolutivi (per esempio l’evoluzione dai procarioti agli eucarioti, o dagli eucarioti ai Metazoi) si realizzarono grazie ad una stretta associazione (simbiosi) degli organismi fra loro. Secondo la Margulis la prima relazione che gli organismi tendono a stabilire è di tipo parassitario.

Il parassita è un essere che vive del materiale organico di un altro organismo vivente causandogli un danno. Da un punto di vista evoluzionistico il parassitismo non è una buona strategia, perché, portata all’estremo, causa la morte dell’ospite, fatto questo che, direttamente o indirettamente, va a detrimento della vita del parassita stesso. Quando il parassita riesce invece a trarre vantaggio dalla relazione senza danneggiare l’ospite siamo di fronte all’evoluzione del parassitismo nel commensalismo, strategia che, da un punto vista evoluzionistico, si rivela più efficiente del parassitismo. 

Il commensalismo a sua volta può ulteriormente evolvere nella simbiosi, che è una stretta relazione tra esseri viventi che comporta una serie di vantaggi e svantaggi di entità variabile per ciascun organismo coinvolto. La simbiosi può essere molto elastica: si può avere una simbiosi di tipo antagonista quando la relazione tende a privilegiare uno degli organismi al limite del parassitismo oppure, all’estremo opposto la simbiosi mutualista, quando l’associazione comporta vantaggi vicendevoli. 

Le idee della Margulis sono andate a costituire l’impianto fondamentale della Teoria dell’endosimbiosi seriale, che ritengo il complemento più originale ed affascinante della Teoria di Gaia. La nostra specie può essere considerata una gilda biochimica a se stante, in quanto capace di trasformazioni tanto straordinarie e imprevedibili quanto sono consentite dai gradi di libertà del pensiero. Alcuni grandi studiosi come Vernadsky e Teilhard de Chardin hanno parlato di noosfera, o sfera del pensiero, per descrivere questa singolare caratteristica della vita che trova il vertice della nostra specie. 

Abbiamo da poco cominciato a prendere coscienza dei meccanismi e dei vincoli di questo grande sistema organico che chiamiamo Gaia. L’intuizione mistica dei nostri antenati sta prendendo corpo e si trasforma in analisi scientifica senza che questo diminuisca l’impatto emotivo che, più o meno consapevolmente, ciascuno di noi ha con i cicli della vita. Questa presa di coscienza ci fa apparire oggi per quello che siamo: una sorta di parassiti di Gaia.

Una specie che nel suo insieme sfrutta le risorse del pianeta senza riciclarle e che si appropria di quasi la metà del flusso energetico incorporato nella fotosintesi. Abbiamo bisogno di una conversione del nostro sistema economico perché diventi più equo e sostenibile. Abbiamo bisogno di trasformare la nostra relazione con Gaia in una simbiosi mutualistica, una simbiosi che faccia davvero onore alla qualità che meglio ci caratterizza: il pensiero.

Epistemologia (autori vari)

Il testo che riportiamo è tratto dal libro: L'ipotesi Gaia, Autori Vari, Red Edizioni

Il biologo Steve J. Gould, parlando sull'evoluzione davanti a un folto pubblico nella Steve University di New York a Stony Brook afferrò al volo una domanda giunta dal fondo della sala. 
"Potrebbe, per piacere," chiese una vocina, "potrebbe dire qualcosa sull'ipotesi Gaia?".
"Sono lieto della domanda," rispose Gould è proseguì: "Dopo ognuna delle ultime cinque conferenze che ho tenuto in varie università, almeno una persona ha fatto una domanda sull'ipotesi Gaia. Eppure nulla di quanto avevo detto nelle mie conferenze aveva a che fare con l'ipotesi Gaia! 
E' davvero interessante, evidentemente la gente ha molta curiosità al proposito. Eppure io personalmente non ci vedo nulla che non si insegni già nelle scuole superiori. Ovviamente l'atmosfera interagisce con la vita; il suo contenuto di ossigeno, per esempio, dipende in modo evidente dagli organismi viventi. 
Ma tutto ciò lo sappiamo da un pezzo. L'ipotesi Gaia non dice niente di nuovo, non propone alcun meccanismo nuovo. Non fa che mutare di metafora. Ma la metafora non è un meccanismo". 

E questa fu la sua parola definitiva in materia. Quello che Gould tralasciò di dire è che 'meccanismo', a sua volta, altro non è che una metafora. Una metafora certo importante, ma una metafora. In effetti l'intero processo della scienza moderna sembra nutrirsi di questa metafora. 

Nel 1644 il brillante filosofo francese Renato Cartesio scriveva: "Ho descritto la Terra e tutto il mondo visibile come se fosse una macchina". Nei suoi numerosi scritti, Cartesio, sviluppando un concetto già suggerito da altri filosofi, inaugurò la tradizione di pensiero che usiamo chiamare meccanicismo, ovvero, come la si chiamava a quei tempi, 'filosofia meccanica'. 

E la sua metafora ci accompagna ancor oggi. 

Ma guardiamo meglio come opera tale metafora su di noi. Quali sono i principi, espliciti o impliciti, che volenti o nolenti accettiamo quando accettiamo la premessa che il mondo visibile, e più specificamente la Terra, è compreso meglio quando lo interpretiamo come una macchina intricata e complessa? In primo luogo, la 'filosofia meccanica' suggerisce che la materia sia inesorabilmente inerte, senza vita o creatività. La grande utilità della metafora 'macchina' è che essa implica che il mondo materiale sia, almeno in via di principio, completamente prevedibile. 
Secondo tale metafora, il mondo materiale opera come qualsiasi macchina, cioè obbedendo a leggi fisse e invariabili, leggi che sono state introdotte nella macchina fin dall'inizio. Essa non possiede ne creatività ne spontaneità. Come un orologio, ticchetta in modo uniforme, fino a quando si rompe; pertanto il mondo materiale non è in grado di per se di alterare o variare le leggi che esso stesso incorpora. (Infatti nessuno di noi pensa che gli ingranaggi del suo orologio possano malignamente mutare, alterando l'ora. ) 
Le leggi del mondo meccanico sono fisse e immutabili, se riusciremo a scoprire tali leggi, saremo in grado di predire con certezza assoluta gli eventi del mondo. 0 per lo meno, cosi pensavano i filosofi 'meccanici' del secolo XVII. 
Ricordate che non è necessario essere una macchina per essere prevedibili. La maggior parte delle persone che conosco sono facilmente prevedibili. Gli altri animali e le piante sono, grosso modo, prevedibili. Per lo meno altrettanto di quanto lo siano le condizioni meteorologiche, ma Cartesio e i suoi seguaci scelsero di vedere le condizioni meteorologiche come completamente prevedibili, per principio. E questo perché il mondo materiale non era un organismo, era una macchina. Non aveva vita propria, né sensibilità, né un'energia intrinseca, né una propria forza motrice. 

Questo ci conduce al secondo principio implicito nella metafora meccanicistica, un principio meno evidente del precedente. Una macchina implica sempre qualcuno che l'abbia inventata, un costruttore, un creatore, non può assemblarsi da sola. Orologi, vetture, macchine a vapore non si costruiscono da sole dal nulla, se lo facessero, sarebbero delle entità davvero magiche e strane, e non potremmo attribuire loro la fissità, l'uniformità. E la prevedibilità che associamo a un oggetto rigorosamente meccanico.
Se vediamo la natura come una macchina, allora la vediamo tacitamente come qualcosa che è stato costruito, qualcosa che è stato fatto dall'esterno. Ciò risulta in modo evidente anche in gran parte del linguaggio che usiamo oggi nella nostra scienza: parliamo di comportamento che è stato 'programmato' nei geni degli animali, di informazione contenuta nei 'circuiti' del cervello. 
Ma chi ha scritto il programma? Chi ha costruito i circuiti del cervello'? Come meccanicisti, prendiamo queste metafore dai meccanismi che sono stati costruiti, che sono stati inventati e fabbricati dagli esseri umani, e poi facciamo finta che l'inventore o il costruttore (o il programmatore) non sia implicato nella metafora. Ma naturalmente lo è. Per forza fa parte della metafora, non si può avere una macchina senza qualcuno che l'abbia costruita. 
Vi sto chiedendo di incominciare a rendervi conto di come le metafore agiscano su di noi in modo implicito, inconsciamente. Tuttavia, quello che oggi resta per lo più inconscio era del tutto evidente nel secolo XVII. Se il mondo materiale assomiglia a una macchina, allora deve esser stato costruito dall'esterno. Un mondo meccanico implica un costruttore. E questa è precisamente la ragione per cui la filosofia meccanica e il meccanicismo trionfarono nei secoli XVII è XVIII, entrando a pieno titolo a far parte della struttura della scienza ufficiale. 

Il meccanicismo esercitò tanto ascendente non perché fosse un elemento necessario per la pratica scientifica, ma perché disarmava le obiezioni della Chiesa, l'istituzione sociale e politica che a quel tempo dominava la scena. La filosofia meccanica divenne un aspetto centrale della visione scientifica del mondo precisamente perché implicava l'esistenza di un costruttore (un divino inventore, se volete) e cosi rendeva possibile un'alleanza tra scienza e Chiesa. 
Noi moderni tendiamo a credere che l'adozione della metafora meccanicistica sia stata una condizione necessaria per la crescita e il fiorire della scienza sperimentale. Ma uno studio attento dei conflitti e dibattiti che hanno dato origine alla rivoluzione scientifica fa dubitare di tale assunto. Fino alla seconda metà del secolo XVII la tradizione della sperimentazione non era associata alla filosofia meccanicistica ma piuttosto a coloro che la praticavano, che l'avevano sviluppata e perfezionata, facendone un'arte, individui che avevano una concezione del mondo diversa da quella dei meccanicisti. 
Costoro infatti si definivano cultori della 'magia naturale', spesso addirittura 'alchimisti'. Essi vedevano il mondo materiale, anzi la stessa materia, come un luogo di forze sottili e immanenti, una rete dinamica di forze convergenti e contrastanti. Per Marsilio Ficino, un mago del Rinascimento, il grande traduttore delle opere di Platone in latino, per gli ermetici Giordano Bruno e Tommaso Campanella, per il geniale medico e alchimista Paracelso (il vero padre della medicina omeopatica), insomma per l'intera tradizione alchemica, la natura materiale era da concepirsi come qualcosa di vivo, come un complesso organismo vivente con cui il ricercatore, il mago o scienziato, entrava in rapporto. 
Il metodo sperimentale veniva sviluppato e affinato come un mezzo per giungere a tale relazione, come una pratica di dialogo tra se stessi e la natura animata. La sperimentazione era qui una forma di partecipazione, una tecnica di comunicazione o comunione che, quando aveva successo, effettuava una trasformazione non solo nella struttura del materiale sperimentato, ma anche nella struttura dello stesso sperimentatore'. Molte delle grandi scoperte che oggi associamo alla rivoluzione scientifica, addirittura molti degli stessi scienziati, si ispirarono a questa tradizione della magia naturale, una tradizione di partecipazione. 
Basterà ricordare Niccolò Copernico, che ha parlato del Sole come del Dio visibile, citando il leggendario mago egiziano Ermete Trismenegisto; o l'astronomo tedesco Johannes Keplero, la cui madre venne imprigionata e quasi condannata a morte dietro l'accusa di stregoneria sulla base di ciò che egli stesso aveva scritto; o William Gilbert, il grande studioso del magnetismo, che egli denominava coito, come se fosse stato un tipo di rapporto sessuale che la materia aveva con se stessa, e che, nel suo libro Magnete, parlò della Terra come di un corpo vivente dotato di un proprio impulso di autoconservazione. 
E infine dobbiamo naturalmente citare il filosofo inglese Francesco Bacone, il padre della scienza sperimentale, che vedeva il suo metodo scientifico come un perfezionamento della tradizione della magia naturale e che scrisse che, attraverso la sua opera, il termine magia, che "è stato a lungo usato in senso dispregiativo, recuperare nuovamente il suo antico e onorevole significato". 

Com'è accaduto che abbiamo dimenticato questo intimo legame tra scienza sperimentale e magia naturale? Come o perché questo legame con la magia è rimasto oscurato dalla tradizione successiva della scienza naturale? Perché il fisico matematico inglese Isaac Newton, che può esser definito uno dei massimi cultori della magia naturale, trovò necessario nascondere e addirittura negare pubblicamente le vaste ricerche alchemiche che lo impegnarono per tutta la vita? 

Evidentemente la Chiesa nei secoli XVI è XVII si sentiva minacciata da questa potente tradizione che sosteneva che il mondo materiale era 'una fonte di se stesso', una tradizione che parlava della Terra come di un essere vivente, una matrice vivente dei poteri spirituali. Un simile modo di esprimersi minacciava la dottrina teologica secondo cui la materia sarebbe passiva e inerte, è il regno materiale della natura segnato dal peccato, caduto, necessariamente separato dalla sua fonte divina. (Non mi riferisco qui, ovviamente, alla dottrina cristiana in generale, ma solo alla Chiesa istituzionalizzata dei secoli XVI è XVII, un periodo, ricordiamolo, che vide centinaia di migliaia, se non milioni, di individui, soprattutto donne, torturate e condannate a morte per stregoneria dalle autorità ecclesiastiche e civili).
La vera fonte di vita, secondo la Chiesa, era assolutamente esterna alla natura, esterna al mondo terrestre in cui siamo corporalmente immersi. Gli insegnamenti della magia naturale, dal canto loro, con il costante riferimento alle forze immanenti, implicavano che i miracoli divini di cui parlano il Vecchio e il Nuovo Testamento si potevano spiegare con principi sottili, insiti nella natura materiale. Questa era un'eresia bell'e buona poiché consentiva di mettere in dubbio la stessa esistenza e potenza di Dio al di fuori della Natura.
E' quindi chiaro che la sperimentazione naturale dove trovare una nuova retorica su cui basarsi, se voleva diventare una pratica rispettabile o addirittura lecita, doveva liberarsi delle sue origini che risentivano di una concezione del mondo magica e immanente e assumere un nuovo linguaggio, che fosse maggiormente in linea con la dottrina della Chiesa. 
Fu il meccanicismo o filosofia meccanicistica a fornire questo nuovo, e assai meno pericoloso, modo di esprimersi; perché, ripetiamolo, una macchina metaforica implica un costruttore metaforico, un creatore. Come la Chiesa, anche la filosofia meccanicistica aveva bisogno di una fede implicita in una fonte creativa del tutto esterna al mondo materiale e sensibile. E, come la Chiesa, la filosofia meccanicistica implicava una denigrazione della materia, non come decaduta, peccaminosa e demoniaca, ma come inerte, priva di vita, cioè morta. 
Ecco dunque qui una cosmologia perfetta da adottarsi da parte dello scienziato sperimentale, una cosmologia che gli permetteva di seguitare a indagare sulla natura senza timore di essere perseguitato o giustiziato per eresia. La metafora meccanica rese possibile un'alleanza tra scienza del secolo XVII e Chiesa. Fu così che il meccanicismo divenne un principio essenziale della concezione scientifica del mondo. 

Ora siamo in grado di comprendere il terzo e più importante principio implicito nella metafora meccanicistica. Le uniche vere macchine di cui abbiamo diretta esperienza sono quelle che sono state inventate dagli esseri umani. Quindi, se il mondo funziona veramente come una macchina complessa, allora colui che ha costruito la macchina deve essere molto simile a noi. Esiste, in altre parole, un isomorfismo implicito tra esseri umani e colui che costruì o programmò la vasta, complessa macchina del mondo. Dopo tutto, siamo fatti a sua immagine. Quindi, solo noi abbiamo un mandato celeste per manipolare il resto di questo mondo a nostro vantaggio. Se la Terra materiale è una macchina creata, tocca a noi, che siamo non solo creati, ma creatori a pieno titolo, scoprire come funzioni tale macchina. 
La metafora meccanicistica, quindi, non solo ci rende molto semplice intervenire sul mondo, poiché presenta la natura come un assemblaggio di parti che non hanno una relazione interna tra loro, un insieme di parti, cioè, che può essere facilmente smontato e poi riassemblato senza indebito danno; essa ci fornisce anche una giustificazione metafisica per qualsiasi manipolazione di tal fatto. Dal momento che le macchine sono inventate dagli uomini, la mente umana gode necessariamente di una posizione simile a quella di Dio, esterna al mondo meccanico che essa analizza. 
Questo è evidente ancor oggi. E' chiaramente illustrato da due titoli comparsi nel 1987 sul 'New Times' nello spazio di una settimana. Il primo, del 14 aprile, era: “I fisici vogliono creare un universo in laboratorio”. L'articolo riferisce il progresso del tentativo di Alan Guth e collaboratori al Massachusetts Institute of Technology di creare in laboratorio un universo dal nulla. Il secondo titolo, comparso tre giorni dopo, il 17 aprile, diceva: “Saranno brevettate nuove forme animali”. Questo articolo descriveva alcuni degli animali di nuova invenzione in attesa di brevetto, come i maiali con un genoma contenente un ormone della crescita umano che li fa crescere più rapidamente. "Questi maiali sono più magri di quelli 'naturali', ma soffrono di vari disturbi debilitanti, tra cui lo strabismo, una grave forma di artrite alle articolazioni e una maggiore disposizione alle malattie." 
E' istruttivo mettere insieme questi due titoli comparsi nella stessa settimana, e vedere che cosa ne viene fuori. I fisici vogliono creare un universo in laboratorio: saranno brevettate nuove forme animali, è come leggere un quotidiano che esce sull'Olimpo! All'interno della metafora meccanicistica vi è sempre un parallelismo implicito tra la mente umana, così creativa, e quella che ha creato l'universo, cioè tra gli esseri umani e Dio. 
Il ricercatore umano gode così di un mandato divino che lo autorizza a sperimentare sulla natura terrena, a intervenire su di essa, a manipolarla, in qualsiasi modo gli appaia opportuno. L'inerzia della materia, l'evidente mancanza di sensibilità di tutto ciò che non è umano, assolve il ricercatore da ogni colpa relativa all'evidente dolore che gli può capitare di infliggere agli animali o agli ecosistemi (tale dolore, come ci ha detto Cartesio, è un'illusione, perché gli automi non possono sentire realmente qualcosa). 
La concezione meccanicistica ci pone in una relazione con il mondo che è quella dell'inventore, dell'operatore, dell'ingegnere di fronte alla sua macchina (molti biologi, per esempio, oggi si considerano 'ingegneri genetici'). 
E' questa posizione privilegiata, la licenza che essa ci da di possedere e controllare la natura, di impadronirsene, che ci rende oggi tanto riluttanti ad abbandonare la metafora meccanicistica. Se il meccanicismo si conquistò la sua posizione di predominio nel secolo XVII in virtù della sua compatibilità con la fede in un divino creatore, esso mantiene oggi tale posizione in gran parte in virtù della deificazione dei poteri umani che esso promuove. 
Ma tale deificazione, questo privilegio umano, è a spese della nostra esperienza percettiva. 
Mi spiego meglio. Se sospendiamo la nostra consapevolezza teorica e prestiamo ascolto alla nostra esperienza sensoriale del mondo che ci circonda (alla nostra esperienza non di intelletti disincarnati ma di animali senzienti e intelligenti), troviamo che non siamo fuori dal mondo, ma totalmente entro di esso. Siamo circondati dal mondo da ogni parte, immersi nelle sue viscere. 
Quindi la nostra relazione sensoriale con il mondo non può essere quella tra un osservatore e un oggetto: in quanto animali dotati di sensi, non siamo mai osservatori disinteressati, ma partecipiamo a un campo dinamico, mutevole e anche ambiguo. 
Maurice Merleau-Ponty, il filosofo francese che ha forse più accuratamente di ogni altro analizzato l'esperienza della percezione, ne ha sottolineato la natura partecipatoria richiamando l'attenzione sul fatto ovvio, ma facilmente dimenticato, che la nostra mano, con cui tocchiamo il mondo, è essa stessa una cosa che si può toccare, e cosi fa essa stessa parte del mondo tattile che esplora. 
Parimenti gli occhi, con cui vediamo il mondo, sono a loro volta visibili. Essi fanno totalmente parte del mondo visibile che vedono, sono una delle cose visibili, come la corteccia di un albero, o un sasso o il cielo. Per Merleau-Ponty, vedere è anche, al tempo stesso, sentirsi visti e toccare il mondo è anche esser toccati dal mondo! Chiaramente una mente del tutto immateriale non potrebbe né vedere né toccare le cose, non potrebbe sperimentare assolutamente alcunché. Noi possiamo sperimentare le cose, toccare, udire, sentire i sapori, solo perché, in quanto corpi, siamo noi stessi parte del mondo sensibile, e abbiamo noi stessi delle sensazioni tattili, acustiche, olfattive, eccetera. 
Possiamo percepire le cose solo perché facciamo completamente parte del mondo sensibile che percepiamo. Potremmo altrettanto bene dire che siamo organi di quel mondo e che il mondo percepisce se stesso attraverso noi. Ma la cosa principale che dobbiamo apprendere da Merleau-Ponty è che, dalla prospettiva della nostra coscienza incarnata, vissuta, la percezione è sempre vissuta come una partecipazione interattiva, reciproca. L'evento della percezione non è mai istantaneo, essa ha sempre una durata, e in tale durata c'è sempre un movimento, un interrogare e un rispondere, un sottile sintonizzarsi degli occhi a quanto essi vedono, delle orecchie a quanto odono, e cosi noi entriamo in relazione con le cose che percepiamo. 
Quando, per esempio, la mia mano si muove sulla superficie di un sasso trovato sulla spiaggia, le mie dita devono adeguarsi alla particolare 'grana' della sua superficie, devono trovare il movimento giusto, il modo esatto di toccarla, se vogliono scoprire le sue minime rientranze e sporgenze; i miei occhi devono trovare il giusto modo di guardare e di mettersi a fuoco sulla superficie del sasso se vogliono scoprire i segreti della sua composizione minerale. E' in questo modo che il sasso insegna ai miei sensi e informa il mio corpo. E più resterò in compagnia del sasso, più imparerò. Vi è come un mutuo accordo tra il mio corpo e il sasso, tra il sasso e il mio corpo. Lo stesso accade per tutto quello che percepiamo, costantemente, di continuo, le strade asfaltate su cui camminiamo, gli alberi intorno alla nostra casa, le nuvole su cui cade il nostro sguardo. 
La percezione è sempre un impegno attivo nei riguardi di ciò che si percepisce, una percezione immediata scopre sempre le cose e il mondo come presenze ambigue, animate, con cui ci troviamo in relazione. Che questa sia la nostra esperienza umana, innata, delle cose, lo dimostrano i discorsi di pressoché tutti i popoli tribali, indigeni, i cui linguaggi si rifiutano di designare le cose, e in genere il mondo sensibile, come definitivamente inanimato. Se una cosa ha il potere di richiamare la mia attenzione o di catturare il mio sguardo, è ben difficile considerarla inerte. "Se questa pietra non fosse in un certo senso viva, non potreste neppure vederla", mi disse un vecchio sciamano nel deserto vicino a Santa Fe. E con ciò intendeva dire, credo, che il semplice vedere qualcosa è gia essere in un rapporto attivo con quella cosa; e come si potrebbe essere in un rapporto dinamico con qualcosa di completamente inanimato, senza alcuna potenza o spontaneità propria'? Come, in realtà? 
Affermando che la materia è del tutto passiva e inerte, il meccanicismo nega la nostra esperienza percettuale e la nostra implicazione sensoriale nel mondo. Lo scienziato che si attiene a una concezione fondamentalmente meccanicistica del mondo naturale deve interrompere la sua partecipazione sensoriale alle cose. Lotta per descrivere il mondo dal punto di vista di uno spettatore esterno. Concepisce la Terra come un sistema di relazioni oggettive dispiegate davanti al nostro sguardo, ma non include nel sistema tale sguardo, il suo stesso atto del vedere. 
Negando la sua implicazione sensoriale in ciò che cerca di comprendere, egli resta in possesso soltanto di una relazione mentale con ciò che altro non è che un'immagine astratta. Lo stesso vale per ogni oggetto o organismo particolare che il meccanicista studia. Anche qui egli deve assumere la posizione dell'osservatore disinteressato. Deve reprimere qualsiasi implicazione personale con l'oggetto, qualsiasi traccia di soggettività deve essere eliminata dal suo resoconto. 
Ma questo è impossibile, perché sussiste sempre qualche interesse, qualche circostanza, che ci inducono a soffermarci su un dato fenomeno piuttosto che su un altro, e questo condiziona necessariamente ciò di cui andiamo in cerca e ciò che scopriamo. Siamo sempre nel mondo e del mondo, quel mondo che cerchiamo di descrivere dall'esterno. Possiamo negare, ma non possiamo evitare di essere coinvolti da ciò che percepiamo, qualsiasi cosa sia. 
Quindi, possiamo dichiarare che il mondo sensibile è inesorabilmente inerte o inanimato, ma non possiamo mai sperimentarlo totalmente come tale. Al massimo, possiamo cercare di rendere inanimato il mondo sensibile, uccidendo o ciò che percepiamo oppure la nostra esperienza sensoriale. La nostra negazione o partecipazione si manifesta così in una forma particolare, una forma che fa violenza al nostro corpo e alla Terra. 
Il meccanicismo, quindi, è una concezione che nega la natura intrinsecamente reciproca e partecipatoria dell'esperienza percettuale. In tal modo reprime e soffoca i sensi, che non sono più liberi di impegnarsi apertamente con manifestazioni naturali quali gli alberi, il canto degli uccelli, il moto delle onde. Sempre più ci dimentichiamo della Terra animata via via che il nostro corpo si richiude su se stesso: il nostro scambio diretto con il mondo sensibile è inibito. Il meccanicismo sublima il nostro rapporto carnale con la Terra trasformandolo in una relazione puramente formale, non con il mondo, ma con un'immagine astratta simile a una copia carbone, con un ideale di una verità artificiosamente confezionati. 
Questa epistemologia mentalistica, con la sua paura di una relazione diretta e la sua intolleranza dell'ambiguità, è il segno, oserei suggerire, di una scienza immatura e adolescente, una scienza che non ha ancora raggiunto la maggiore età. Anche se sporadicamente essa fomenta grandiosi sentimenti di potere e dominio sulla natura quale potrebbe averne un dio, la scienza come il meccanicismo la intende, è intrinsecamente instabile, perché fondata su una negazione delle stesse condizioni che rendono possibile una scienza, quale che sia. 

Una simile scienza non può durare; deve o obliterare il mondo in un'apoteosi finale di negazione, oppure lasciare il posto a una scienza di tipo diverso, una scienza che possa affermare anziché negare il nostro legame vivente con il mondo che ci circonda. L'ipotesi Gaia potrebbe essere proprio il segnale che sta emergendo una siffatta scienza matura, una scienza che non cerca di controllare il mondo, ma vuole parteciparvi, che non cerca di intervenire sulla natura, ma vuole collaborare con essa. 
Se la composizione chimica dell'aria che respiriamo viene davvero continuamente verificata e mantenuta quale è dalla sommatoria di tutti gli esseri viventi della Terra che agiscono di concerto, come un unico sistema coerente, autopoietico o vivente, allora il mondo materiale che ci circonda non è, in alcun senso, inerte o inanimato. 
Questi insetti, questi alberi, perfino queste pietre non sono totalmente passivi e inerti. Infatti non possiamo più percepire la natura materiale come una collezione di pezzi di una macchina scomponibile: la natura non è una macchina creata, ma piuttosto una fisiologia vivente, immensa, autogenerantesi, aperta e capace di reagire al mutare delle circostanze. In breve, essa è un'entità. Naturalmente, possiamo ancora cercare di parlare di Gaia in termini puramente meccanici, o cercare di concepire Gaia come un insieme di processi strettamente oggettivi, sforzandoci così di mantenere la nostra scienza entro il vecchio paradigma meccanicistico a cui siamo ormai abituati. 
Possiamo essere riluttanti a rinunciare al sogno di un'oggettività ben definita, e della realtà statica a cui tale oggettività corrisponderebbe. Tuttavia, Gaia non potrà mai rientrare del tutto in un discorso a base di meccanismi. [Un meccanismo] è completamente determinato, esso agisce, come abbiamo visto, in funzione di un insieme di regole e strutture prevedibili e fisse che esso non ha generato. Ma è precisamente a tale formulazione che resiste Gaia, in quanto sistema che si autogenera. 
Naturalmente, possiamo dire che Gaia è una macchina, o un insieme di meccanismi, che si autocostruisce. Bello! Ma allora abbiamo rinunciato, forse senza rendercene conto, a quella parte della metafora che rende tanto affascinante il meccanismo: una macchina che crea se stessa, infatti, non è più completamente prevedibile, perché si genera come capita, in modo creativo. (Non abbiamo garanzia, per esempio, che i cosiddetti 'meccanismi' adoperati da Gaia per regolare la salinità degli oceani o per limitare l'ingresso della radiazione ultravioletta nell'atmosfera, siano precisamente quelli stessi che essa impiegherà tra un centinaio di anni.) Gaia, in quanto entità autonoma che si autogenera, è ne più ne meno prevedibile di quanto non lo sia un corpo vivente, e potremmo benissimo parlarne in tali termini e smettere di fingere che essa sia qualcosa di simile a una macchina che potremmo costruire. 
L'ipotesi Gaia indica che il mondo in cui abitiamo assomiglia di più a un organismo vivente che a un orologio, o ad un'astronave o perfino a un computer. E noi siamo completamente dentro a questa entità organica, circondati da essa. 
Perché l'ipotesi Gaia dice che l'atmosfera in cui viviamo e pensiamo è essa stessa un'estensione dinamica della superficie planetaria, un organo funzionante della Terra animata. Come ebbi a dire in un precedente articolo. 
Forse la nuova importanza data dall'ipotesi Gaia all'atmosfera di questo mondo costituisce il suo aspetto più radicale. Infatti implica che noi, come individui, prima di riconoscere la Terra come una presenza organica che si autosostiene, dobbiamo ricordare lo stesso medium in cui ci muoviamo, rifare la conoscenza con esso. Non è più possibile confondere l'aria con una presenza meramente negativa, come l'assenza delle cose solide; l'aria è essa stessa una densità (misteriosa proprio perché invisibile) purtuttavia una presenza tattile, corporea. 
Noi siamo immersi nel suo seno con la stessa sicurezza con cui il pesce è immerso nel mare. E' il medium, l'interlocutore silenzioso di tutte le nostre fantasticherie, dei nostri umori. Semplicemente, non possiamo esistere senza il suo sostegno e la sua nutrizione, senza la sua partecipazione attiva in tutto ciò che siamo e facciamo in qualsiasi momento. In concerto con gli altri animali, con le piante, con gli stessi microbi, noi siamo una parte attiva dell'atmosfera della Terra, che fa circolare costantemente il respiro di questo pianeta attraverso i nostri corpi e i nostri cervelli, scambiando certi gas vitali con altri, e cosi verificando, controllando e mantenendo la delicata costituzione del medium. 
Così con il solo respiro partecipiamo alla vita della biosfera. Ma non solo con il respiro! Se la biosfera è veramente un'entità coerente che si autosostiene, allora tutto quello che vediamo, che udiamo, ogni esperienza dell'odorato, del gusto, del tatto, informa i nostri corpi sullo stato interno di quest'altra e più vasta fisiologia, la biosfera stessa. La percezione sensoriale, allora, è realmente una forma di comunicazione tra un organismo e la biosfera vivente. (E potrebbe essere così anche quando osserviamo noi stessi, notando, per esempio, di avere il mal di testa o lo stomaco sottosopra. Perché noi stessi siamo parte di Gaia. Se la biosfera è un'entità vivente, allora l'introspezione, l'ascolto del proprio corpo, può diventare un modo di ascoltare la Terra, di sintonizzarsi con essa).
La percezione è una comunicazione o perfino una comunione, una partecipazione dei sensi tra noi stessi e il mondo vivente che ci abbraccia. Abbiamo visto che questo è esattamente il modo in cui comunemente sperimentiamo la percezione, come un'interazione, una partecipazione o un intreccio tra noi e ciò che stiamo percependo. La percezione non è mai strettamente oggettiva, perché percepire qualcosa significa esserne coinvolti, sentirsi influenzati dall'incontro con essa. Abbiamo visto come il meccanicismo neghi questa dialettica, presupponendo invece che il mondo sia un oggetto creato, fisso e immutabile, incapace di una risposta creativa. L'ipotesi Gaia afferma con decisione la natura partecipatoria della nostra esperienza percettuale in quanto definisce l'ambiente fisico come qualcosa di animato e vivente, il che è precisamente il modo in cui i nostri corpi lo sperimentano. 
Cosi l'ipotesi Gaia permette, letteralmente si direbbe, un ritorno ai nostri sensi. Diventiamo consapevoli, ancora una volta, dei nostri corpi senzienti, e del mondo corporeo che ci circonda. Se il mondo in cui abitiamo è veramente una macchina, un oggetto statico e finito, allora non può reagire nella nostra attenzione; non vi è nulla a cui partecipare o con cui comunicare, salvo noi stessi, le nostre stesse 'menti creative'. Se invece la Terra a non è un oggetto finito, ma si va continuamente creando, allora tutto è aperto alla partecipazione. Dall'ideale dominio platonico dei pensieri e delle teorie siamo riportati in questo regno che abitiamo con i nostri corpi, in questa terra che dividiamo con gli altri animali e le piante e con le entità microbiche che vibrano e ruotano nelle nostre cellule, come nelle cellule del ragno.
I nostri sensi si liberano dai vincoli meccanicistici imposti loro da un linguaggio superato, cominciano a partecipare al corso della vita della Terra che ci circonda. 

Siamo ora in grado di controbattere brevemente l'epistemologia del meccanicismo, ricorrendo alle implicazioni epistemologiche di Gaia. Il modello meccanicistico del mondo implica un'epistemologia mentalistica, il principio che la conoscenza più esatta delle cose consista in un apprendimento distaccato, intellettuale, purgato di qualsiasi coinvolgimento soggettivo, personale o percettivo (cioè corporeo). E' una conoscenza astratta, disincarnata. Al contrario, la comprensione gaiana del mondo, quella che parla della biosfera non come di una macchina ma come di una fisiologia vivente, autopoietica, implica un'epistemologia partecipatoria. 
E come la Terra non è più una macchina, così non lo è il corpo umano che si rivela invece una fisiologia pensante, senziente, sensibile, un microcosmo della autopoietica Terra. Non è quindi in quanto mente distaccata, ma in quanto corpo vivente che io posso pervenire a conoscere il mondo, partecipare ai suoi processi, sentendo che la mia vita risuona con la sua vita, diventando sempre di più una parte del mondo. La conoscenza, qui, è sempre conoscenza carnale, un sapere nato dal sintonizzarsi del corpo stesso con ciò che esso studia e con la Terra. Questa concezione è molto vicina a quella di Ludwig Fleck, il grande epistemologo e sociologo della scienza, che nel 1929 scriveva: La conoscenza non è né contemplazione passiva né acquisizione dell'unico possibile apprendimento di qualcosa di dato. Essa è un'interrelazione attiva, viva, un lasciarsi plasmare e un plasmare, in breve, un atto di creazione (o, potremmo aggiungere, di co-creazione). 
Possiamo chiederci che tipo di scienza verrebbe fuori se una tale epistemologia dovesse prendere piede e diffondersi nella comunità umana. E' probabile che gli scienziati perderebbero ben presto ogni interesse per la ricerca di una copia carbone della Terra, privilegiando invece la scoperta di un modo per migliorare la relazione tra l'umanita e il resto della biosfera e un sistema per por rimedio ai problemi esistenti, causati dal fatto di aver trascurato tale relazione. 
Ho parlato di una scienza che non cerca di controllare la natura ma di comunicare con la natura. La sperimentazione verrà di nuovo intesa come una disciplina o arte della comunicazione tra lo scienziato e ciò che egli studia (un'interpretazione che non è lontana dal modo in cui in origine veniva intesa la pratica sperimentale, come abbiamo visto). 
In realtà sono sicuro che molti scienziati hanno già familiarità con l'esperienza di una profonda comunicazione o comunione con ciò che studiano, anche se l'attuale discorso scientifico rende piuttosto difficile riconoscere tale esperienza o darle voce. (Salvo, naturalmente, nel caso dei fisici. I fisici sono più liberi di dar voce a tali esperienze solo perché il loro oggetto rimane trascendente al mondo della nostra esperienza immediata. Partecipare misticamente ai quanti subatomici o anche all'origine ultima dell'universo non obbliga realmente la scienza ad alterare i suoi principi sulla natura inerte o meccanica del mondo sensibile di tutti i giorni, e quindi non mette veramente in pericolo il nostro diritto di dominare e manipolare il mondo immediato che ci circonda. Ma i biologi, che studiano proprio tale mondo, il mondo che possiamo direttamente percepire, spesso con i nostri sensi, senza bisogno di strumenti che ci vengano in aiuto, si trovano in una posizione politica assai più precaria).
Tuttavia in una scienza genuinamente gaiana o in una comunità gaiana di scienziati, diventerebbe evidente e manifesto il fatto che siamo già coinvolti in ciò che studiamo, e quindi non sarebbe più necessario cercare di evitare tale coinvolgimento, o di reprimerlo. Al contrario, gli scienziati potrebbero incominciare a sviluppare apertamente e coltivare il loro rapporto personale con ciò che studiano come un mezzo per approfondire la loro intuizione scientifica. 
La biologa Barbara McClintock, a cui è stato assegnato il Premio Nobel nel 1984 per la sua scoperta della trasposizione genetica, è un esempio di questa epistemologia partecipatoria che una scienza gaiana implica. Ella sostiene che un vero scienziato deve avere "una sensibilità dell'organismo, e non solo nei riguardi degli organismi "viventi", ma anche "per qualsiasi oggetto che richiami pienamente la nostra attenzione"'. 
La McClintock descrive un cambiamento quasi magico nel suo orientamento, che le permise di identificare i cromosomi che fino ad allora non era stata capace di individuare. Si tratta proprio di un cambiamento che va nella direzione di un'epistemologia partecipatoria: “Scoprii che più lavoravo con loro, più i cromosomi diventavano grandi, e che quando lavoravo veramente con loro non ero al di fuori, ma li dentro. Facevo parte del sistema. Ero proprio li, con loro, e tutto diventava grande. Riuscivo perfino a vedere le parti interne dei cromosomi, tutto era veramente li. La cosa mi sorprese perché mi sembrava proprio come se fossi con loro e fossero dei miei amici. Li guardate, e diventano una parte di voi. E vi dimenticate di voi stessi”. 
Come Barbara McClintock giunse a percepire se stessa all'interno del sistema vivente che stava studiando, cosi l'ipotesi Gaia situa tutti noi all'interno di questo mondo che dividiamo con le piante, gli animali, le pietre. Le cose intorno a noi non sono più inerti. Esse partecipano insieme a noi all'evoluzione di una conoscenza e di una scienza che appartiene all'umanità ne più ne meno che alla Terra.