Adesso però si apre una nuova grande sfida, più sottile e profonda, perché “l’assimilazione capitalista” cerca di appropriarsi proprio di queste categorie per volgerle a vantaggio di pochi sottraendole alla funzione per le quali serano nate: affermare il vivere bene di tutti. Il confronto non si svolge più tanto sulla scala dei valori ma sulla coerenza e l’efficacia della loro applicazione. Abbiamo bisogno di mostrare che improntare le nostre azioni al benvivere di tutti è una possibilità concreta e vitale, che si può star bene vivendo solidarietà, reciprocità e fiducia. La posta in gioco è enorme: gli orientamenti di milioni di cittadini che hanno dimostrato di volere e poter cambiare.
Venti anni fa la difficoltà stava nel dare valore e sostanza ai concetti di equo, ecologico, locale, solidale, relazioni e condivisione alla base dell’attività economica; sembravano idee sempliciotte uscite da una favola per bambini, di quelle che si abbandonano quando si scopre chi è Babbo Natale, per poi tornare ai raccontarle ai propri figli piccoli sapendo però che la vita vera funziona in altro modo.
Ma queste categorie corrispondono a bisogni reali, per questo motivo molti adulti cercano di applicarle alla loro vita, e così ora mi sento di dire che questi valori sono passati nell’immaginario, sono riconosciuti; solidarietà, energia pulita, bene comune e partecipazione sono parole del futuro, non di un passato nostalgico.
Ma se la prima battaglia è stata vinta, ora inizia la grande sfida, molto più sottile e profonda. Perché se proponiamo queste categorie è per aumentare il più possibile il benvivere di tutti, mentre quella che potremmo chiamare “l’assimilazione capitalista” sta provando a rivoltarle a vantaggio di pochi, utilizzando le nostre stesse parole in senso opposto.
Se, come scrive Thomas Piketty, “Il processo di accumulazione e di distribuzione dei patrimoni contiene in sé fattori talmente potenti da spingere verso la divergenza, o quantomeno verso un livello di disuguaglianza estremamente elevato” (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani 2014, p. 52), uno dei pochi baluardi che ancora orientano i flussi di beni e di valori a vantaggio di tutti è l’economia solidale. Se questa viene rivoltata l’effetto è pari all’inversione del flusso della corrente del golfo: rischiamo di trovarci tutti al freddo.
In fondo sapevamo che sarebbe arrivata, ma non ne conoscevamo le forme; ora invece si sta manifestando con chiarezza. A dicembre la rivista “Internazionale” pubblica l’articolo “Chi condivide e chi guadagna” dedicato proprio a queste mutazioni all’interno della cosiddetta “sharing economy”, analizzando con chiarezza i punti critici di alcune innovazioni che dietro la bandiera della condivisione mascherano il peggioramento dei diritti e delle condizioni di lavoro e flussi economici che vanno dai poveri verso i ricchi. L’articolo riporta esempi reali di applicazioni, alcune delle quali si stanno diffondendo in tutto il mondo, accessibili comodamente dal tuo smartphone.
A gennaio Tommaso Regazzola indaga la questione nel campo della piccola distribuzione organizzata (PDO) con l’articolo “Cosa possiamo imparare dalla assimilazione capitalista – molto business – dei nostri obiettivi?” in cui analizza l’esperienza francese de “La Ruche qui dit oui!” che si sta espandendo in Francia e in Europa su iniziativa di investitori privati. I consumatori che partecipano a questi “alveari” scelgono prodotti locali ed hanno occasioni di incontro diretto con i contadini e con gli altri partecipanti, ma le transazioni finanziarie passano sul sito dell’organizzazione centrale che ne detiene il controllo e ne riceverà gli utili.
Come suggerisce Regazzola nella parte finale del suo articolo, invece di imprecare dovremmo piuttosto imparare dalla diffusione di questa esperienza, immaginando e creando esperimenti di piccola distribuzione organizzata che siano accattivanti e comodi come la Ruche ma distribuiscano il potere e gli utili alla rete locale. Il criterio guida per preferire una modalità rispetto ad un’altra è quello indicato dal “talismano di Collecchio”, si tratta di vedere quale rafforza maggiormente la rete. La questione è strategica, perché le reti di economia solidale si sostengono sui flussi trattenuti al suo interno, mentre si indeboliscono quando le risorse escono dalla rete, come nel caso dei dividendi incassati da investitori esterni.
Ora che tutte le imprese dichiarano di perseguire la sostenibilità ambientale e sociale, la sfida si svolge in modo più sottile nelle scelte dei consumatori sensibili: sapremo offrire catene di PDO accattivanti che mantengono i valori sul territorio? Sapremo raccontare la differenza rispetto ad un sano prodotto locale che arricchisce un investitore lontano? Avremo slancio per saltare senza cadere nella trappola del locale (“local trap”) in cui il locale diventa un fine in sé e non un mezzo per il benvivere?
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