L’Etiopia. Oltre un milione di chilometri quadrati di territorio nazionale (circa quattro volte l’Italia). Metà di questo territorio presenta buone condizioni di fertilità: è quindi potenzialmente sfruttabile per l’agricoltura. Non è un caso che ben 87 “affari” agricoli, cioè investimenti in agricoltura si siano conclusi proprio qui (fonte: Landmatrix, ultima consultazione 2 aprile 2015). I principali investitori sono le aziende indiane (15 su 87 affari) per un totale di 600.000 ettari – Karuturi, leader mondiale delle rose recise, la fa da padrone - seguite da quelle saudite.
Stefano Liberti, nel suo libro Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il colonialismo (Minimum Fax, 2011), ha definito l’Etiopia “l’eldorado degli investitori”. Tra il 2008 e il 2011, oltre 3,6 milioni di ettari di terre etiopi sono state trasferite ad investitori privati, imprese a partecipazione statale, aziende straniere. Qui, come altrove sul continente africano (per approfondimenti vedi land grabbing), gli immaginari sono guidati dall’idea della disponibilità “infinita” di terra fertile e libera, foreste ed acqua, dalle appetitose condizioni offerte dal governo in termini di affitti a lungo termine (pochi dollari all’ettaro), di esenzione fiscale ed altri incentivi volti a far crescere il profitto.
Dove in particolare? Le regioni maggiormente investite sono, nel nord Afar e Amhara, Oromia nel centro del paese, Gambella e la Regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud a sud-ovest.
Se i criteri per decidere la “fertilità” della terra risultano facilmente identificabili, più difficile risulta invece pensare a come viene stabilito se la terra sia effettivamente “libera”, quindi inutilizzata, considerato che, come scrive Franca Roiatti nel suo Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bicocca Editore, 2010) “nel paese ci sono più di 12 milioni di pastori che sopravvivono spostandosi su aree molto vaste. Ed è difficile che esistano territori totalmente inabitati. La gente di Kaffa e Sheka nelle regioni del sud e sud-ovest del pese, racconta di società che hanno occupato porzioni di 500-1000 ettari di foresta per coltivare caffè, senza alcun rispetto per i diritti comuni dei contadini locali o per le zone protette. Nella regione Afar, lungo il fiume Awash, le terre che sono state assegnate ai produttori di canna da zucchero e cerali sono normalmente usate dai pastori durante la stagione secca. Che ne sarà di loro?” (pp. 132-133).
Mentre il governo ha messo in piedi un’agenzia, l’Agriculture Investment Agency (AIA) per facilitare le operazioni di marketing (attrazione dei capitali stranieri, informazione, assistenza e monitoraggio delle operazioni contrattuali di compravendita), l’Etiopia continua a primeggiare nella lista dei paesi affetti da grave insicurezza alimentare con una percentuale altissima di persone che soffrono la fame, 40%.
Terra e acqua sono le principali risorse sulle quali si stanno riversando i sogni di potenza dei paesi. Oltre a distribuire le terre, il Governo etiope, nonostante l’opposizione dell’Egitto, cerca di accaparrarsi anche l’altra risorsa strategica, l’acqua, per alimentare città e campagne. Etiopia ed Egitto, insieme a Eritrea, Burundi, Rep. Dem. del Congo, Kenya, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda, condividono le acque del bacino del Nilo. Come sempre chi sta a valle teme chi sta a monte. Rispetto al Nilo è l’Egitto a soffrire maggiormente i progetti d’uso della risorsa a monte perché riducono la portata del fiume, compromettendone la disponibilità laddove rappresenta l’elemento fondamentale per la sopravvivenza dei sistemi territoriali.
Uno degli ultimi progetti sul Nilo ha congelato le relazioni tra Etiopia, Sudan ed Egitto per alcuni anni. Il progetto si chiama GERD, Great Ethiopian Renaissance Dam: è il sogno del rinascimento etiope. Il sognatore è stato Meles Zenawi (1955-2012), ex primo ministro. Si tratta di un’ambiziosa costruzione avviata nel 2010 che, ultimata, dovrebbe diventare la più grande diga idroelettrica del continente: lunga 1.800 metri, alta 170 metri, 6000 megawatt di potenza, 8.500 persone al lavoro 24 ore su 24, un costo stimato in 4,7 miliardi di dollari. Secondo Zenawi, la costruzione avrebbe dovuto essere interamente finanziata dall’Etiopia attraverso i contributi dei cittadini e della diaspora, ma sono stati i prestiti cinesi ed americani ad aver permesso l’avvio dei lavori. La diga è in fase avanzata di costruzione. L’italiana Salini-Impregilo è l’azienda costruttrice senza concorrenti, che ha costruito tutte le dighe più contestate del paese; nel caso della GERD, l’appalto gli è stato affidato attraverso una trattativa privata, senza gara.
Il lavori sono avviati, ma è stato solo il 23 marzo 2015, però, che a Karthum l’Egitto ha deciso di firmare una “dichiarazione di principi” condivisa con Etiopia e Sudan sul progetto: tra le garanzie, chiaramente, risarcimenti, priorità e condizioni favorevoli per i paesi a valle nell’accesso all’energia elettrica.
La diga e il Nilo, precisamente il Nilo Azzurro: il potere dell’uomo e quella della natura contenuti in un sogno, quello che l’Etiopia pensa di consegnare al mondo nel 2017. “Voi prospererete e beneficerete di questa opera – ha detto il presidente egiziano Al-Sisi, rivolgendosi agli altri firmatari dell’accordo –. Vi invito però a non dimenticare che in Egitto la gente vive solo dell’acqua del Nilo”. “Quest’opera non avrà alcun impatto significativo sulla popolazione dei nostri tre paesi – la rassicurante replica del primo ministro etiope Desalegn Hailemaran – e tantomeno su quella dell’Egitto”. Come può non avere impatti significativi un simile progetto?
Lo scorso anno, infatti, il 31 marzo 2014, International Rivers (IR), un’organizzazione ambientalista anti-dighe, ha deposto una richiesta di chiarimento intitolata “GERD panel of Experts Report: Big Questions Remain” per la quale è scattata una denuncia da parte dell’Etiopia. Il gruppo è stato pesantemente accusato di essere sostenuto e finanziato dall’Egitto, fino a pochi giorni fa contrario al progetto. Il documento sul quale si è basata la critica di IR è stato elaborato da una commissione composta da esperti provenienti dai tre paesi interessati. Le principali falle – alle quali il gruppo ha fatto seguire delle raccomandazioni – sono legate alla scarsità di informazioni tecniche (geotecniche, idrogeologiche, sismiche, ecc.) e alla mancanza di un documento unitario sulla fattibilità e i rischi legati alla costruzione della diga; alla leggerezza con la quale lo studio ha trattato le conseguenze a valle concentrandosi solo sulle ricadute sul sito della diga; alla quasi totale assenza di annotazioni sugli effetti socio-economici e culturali sulle popolazione a monte e a valle.
Anche se la contro risposta presentata dal pannel degli esperti della GERD il 15 aprile 2014 contiene una serie di opzioni “rassicuranti”, la realtà sarà inevitabilmente visibile solo quando i lavori della diga saranno terminati e il bacino verrà inondato dalle acque del Nilo Azzurro. Forse sarà troppo tardi. Nel frattempo, da oggi ad allora, le popolazioni locali dovranno inventare strategie di resistenza e di progetto per continuare ad esistere, come sempre.
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