Proveremo a questo punto a sintetizzare un testo che è molto lungo –nell’edizione francese siamo intorno alle 950 pagine; ma anche il libro di Jacques non scherza in quanto a lunghezza, con le sue 780 pagine frutto di molti anni di studi.
L’ampiezza del testo francese si spiega in ragione, in particolare, della larghissima messe di dati ed analisi di lungo termine (che toccano tre secoli) raccolti in diversi anni di lavoro da un rilevante gruppo di ricercatori su di un notevole numero di paesi (ventiquattro per la precisione), nonché per l’ ampia articolazione degli argomenti.
L’Ottocento, per l’autore, è il regno della grande concentrazione di ricchezze e delle grandi diseguaglianze. Il periodo poi del Novecento che va sino alla prima guerra mondiale segna ancora una rapida crescita di tali fenomeni; ma nel dipanarsi del XX secolo, due guerre mondiali, con le conseguenze sociali che esse hanno comportato, il processo di decolonizzazione e lo sviluppo del welfare state, l’introduzione di un sistema di tassazione progressivo e le lotte sociali, hanno portato come conseguenze al risultato che tali fenomeni regrediscano.
Così, in questo dopoguerra, si era sviluppata l’illusione che eravamo ormai entrati in una nuova fase del capitalismo; ma si trattava in realtà di un periodo transitorio. Poi in effetti, a partire dagli anni novanta del Novecento, le disparità hanno cominciato di nuovo a crescere fortemente. Oggi registriamo lo stesso livello di ricchezza degli anni precedenti la prima guerra mondiale, con il livello dei patrimoni che ha raggiunto nel mondo sei volte il livello dei redditi, contro solo due volte negli anni cinquanta.
Alla base di questo processo sta per l’autore la constatazione “tecnica” che, oggi come nell’Ottocento, il tasso di ritorno sui capitali cresce più rapidamente di quanto cresca l’economia, mentre il peso del lavoro sul pil dei vari paesi si va fortemente riducendo. Sempre negli anni cinquanta Simon Kuznets, sulla base dei dati disponibili per l’economia degli Stati Uniti tra le due guerre mondiali, era giunto alla conclusione che nelle prima fase dello sviluppo di un paese la diseguaglianza delle ricchezze tendeva ad aumentare, ma che, in una fase più matura, si manifestava invece una riduzione del fenomeno. Gli economisti occidentali mainstream avevano trasformato questo concetto di Kuznets in una legge universale.
Invece oggi noi assistiamo al fatto che pochi grandi miliardari da soli posseggono una ricchezza equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale. Per altro verso, sottolinea Piketty, le crescenti diseguaglianze stanno distruggendo il capitalismo, sul piano economico come su quello politico.
Come possibile rimedio a questo stato di cose, l’autore suggerisce l’introduzione di una tassa sui patrimoni a livello mondiale, tassa che gli appare più appropriata che l’imposta sui redditi – che peraltro non dovrebbe essere cancellata, ma portata come aliquota marginale all’80% per i redditi più elevati – nei confronti del capitalismo “patrimoniale” del XXI secolo. Una tassa di questo tipo sarebbe anche adatta, per l’autore, a risolvere le crisi del debito pubblico di molti paesi, facendo contribuire ognuno all’obbiettivo in relazione alla sua ricchezza.
Alcune osservazioni e commenti
Il testo dell’economista francese ha suscitato un grande numero di recensioni, commenti, convegni, cui hanno partecipato in particolare molti dei più noti studiosi e addetti ai lavori.
Paul Krugman, che valuta in generale che il libro cambierà sia il modo in cui noi analizziamo le nostre società che il modo in cui ci occupiamo di economia, si chiede, tra l’altro, perché esso abbia suscitato tanto interesse negli Stati Uniti; egli avanza l’ipotesi che il successo e l’interesse siano legati al fatto che esso demolisce il più caro dei miti conservatori, quello cioè che noi viviamo in una società meritocratica, nella quale le grandi fortune sono giuste e frutto del lavoro duro dei più capaci, che riescono ad accumulare così grandi redditi. Ma i ricchi in realtà vivono molto delle ricchezze accumulate in famiglia e dei redditi che tali ricchezze, e non il lavoro, generano; si tratta in realtà, per gli Stati Uniti come per gli altri paesi occidentali, di società dominate da oligarchie basate sostanzialmente sulle ricchezze ereditate.
Martin Wolf, del Financial Times, che pure ha molto apprezzato il volume, osserva che Piketty non dice perché ridurre il livello delle diseguaglianze è importante e perché i costi della riduzione appaiono ridotti rispetto ai benefici della stessa riduzione. Molto brevemente, sulla base anche di alcune ricerche recenti del Fondo Monetario Internazionale, lo studioso britannico sottolinea come le diseguaglianze riducano lo sviluppo e come la diminuzione delle diseguaglianze faccia lavorare meglio le varie economie, aumentando la capacità di tutta la popolazione di un paese a partecipare in termini più adeguati alla crescita delle stesse. Su di un altro piano, Wolf ci ricorda come grandi diseguaglianze dei patrimoni e dei redditi siano incompatibili con l’eguaglianza di tutti come cittadini e della partecipazione di tutti alla vita pubblica. In una società dominata dalla ricchezza il denaro comprerà il potere.
Alla fine, si può anche ricordare come, più o meno, gran parte dei concetti espressi da Piketty erano già stati avanzati di recente da diversi altri studiosi radicali, anche in Italia, ma come la forza del libro stia da una parte nel gigantesco lavoro di ricerca su diversi secoli e molti paesi che c’è dietro, dall’altra che comunque l’autore è un economista inserito nel circuito internazionale dominante e che quindi egli ha avuto più facilità ad essere ascoltato dall’establishment più o meno avanzato dei paesi occidentali.
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